Il potere delle domande.

Ricordo che in seconda liceo il professore di biologia ci insegnò che per il progresso della scienza la cosa più importante era porre le domande giuste. Le risposte sarebbero arrivate.

Molti anni dopo, entrato nel mondo aziendale e fatta qualche esperienza, ho compreso la grande importanza che le domande rivestono in numerose occasioni, anche in un contesto così differente.

In particolare: – all’inizio della trattativa di vendita sono fondamentali per conoscere il cliente, le sue esigenze, i suoi criteri decisionali, e per formulare una proposta commerciale mirata; – nei contesti in cui ci si trovi a gestire obiezioni, reclami, rimostranze, le domande costituiscono un comportamento non aggressivo per aiutare a chiarire, delimitare e gestire le affermazioni della controparte; – in contesti ad alta tensione, nei quali è richiesta capacità di gestione del conflitto, le domande servono a stemperare l’aggressività, a individuare i bisogni sottostanti, a generare consapevolezza sull’origine del conflitto stesso e spesso a risolverlo.

Spesso mi trovo purtroppo a constatare che proprio in questi contesti le domande vengono utilizzate ben poco, lasciando il posto alle meno efficaci affermazioni. Siamo ancora troppo centrati su noi stessi e poco sull’altro.


Emozioni. Una variabile tanto cruciale quanto trascurata.

 

A distanza di oltre 20 dalla pubblicazione di Working with Emotional intelligence di Goleman la mia sensazione è che il suo messaggio resti ancora spesso inascoltato.

C’è chi considera l’utilizzo e l’esternazione delle emozioni come un segnale di debolezza, chi pensa che il tutto si riduca a una bella pacca sulla spalla. Chi ne nega l’importanza.

Eppure l’approccio di Goleman non era assolutamente votato al buonismo e al richiamo ad essere compassionevoli. Ma al contrario, sulla base delle ricerche della psicologia e della neurologia, suffragate da analisi statistiche, dimostrava come l’utilizzo della intelligenza emotiva avesse una evidente correlazione positiva con la performance delle persone. E per inciso, i risultati delle ricerche degli ultimi venti anni nel campo delle scienze cognitive stanno sempre più rafforzando il fondamento scientifico delle sue affermazioni.

Vorrei mettere in evidenza in questo articolo due aspetti in particolare, dei quali ho avuto numerose volte evidenza durante la mia vita professionale.

Il primo, riguarda il fatto che le emozioni trovano progressivamente meno spazio man mano che si sale nella scala gerarchica. Sembra che l’assunzione di posizioni di potere abbia una correlazione negativa con l’empatia e l’esternazione delle emozioni. Posso confermare di avere visto store manager e capi reparto molto più capaci di utilizzare e gestire la sfera emotiva con i loro collaboratori rispetto a direttori di funzione e direttori centrali. Questi ultimi ritengono mediamente che il rapporto debba essere asettico e spersonalizzato. Si vive di egoismi, protagonismi, scarsa comprensione dell’altro. I rapporti sono esclusivamente orientati al business e alla performance. Prevale la convinzione (errata) che in certe posizioni non si debba sprecare tempo a curarsi dello stato emotivo del personale.

Il secondo aspetto, strettamente legato, riguarda la convinzione che i fatti personali debbano essere sistematicamente tenuti al di fuori del contesto lavorativo.

Ora, questo può essere vero nelle situazioni in cui l’individuo rappresenta l’azienda verso l’esterno, con clienti, fornitori, e altri elementi dell’ecosistema aziendale, con i quali è opportuno mantenere un atteggiamento “di facciata”.

La situazione cambia a mio parere nei rapporti interni fra capi e collaboratori. A fronte ad esempio di un improvviso e insolito calo di performance, e di un atteggiamento esteriore che manifesta disagio, un capo può cercare di  analizzare la situazione assieme al collaboratore, mostrando disponibilità all’ascolto senza essere però invasivo. E se il collaboratore desidera esternare anche fatti personali, mostrare comprensione può modificare radicalmente sia la performance del collaboratore stesso, sia il suo senso di appartenenza ad una azienda da cui si sente ascoltato, sia il rapporto personale con il suo responsabile. Purtroppo spesso la frase canonica è invece: “I fatti personali vanno tenuti fuori dall’azienda”, come se le persone fossero dei robot ai quali si cambia un programma di funzionamento a seconda del contesto. Ripeto nuovamente, non si tratta di un invito alla filantropia, non si tratta di fare gli psicologi o gli assistenti sociali, si tratta di prendere atto di come ottenere il meglio dai propri collaboratori, e agire comportamenti coerenti con questo fine.

Per quanto gli esempi personali non costituiscano ovviamente campioni rappresentativi della realtà, desidero comunque citarne due relativi al mio passato professionale.

Il miglior capo che abbia mai avuto era un Country Manager in una multinazionale, mentre io ricoprivo la posizione di key account. Non aveva una solidissima preparazione teorica, ma grande sensibilità commerciale. E soprattutto era sempre in prima linea, pronto ad ascoltare i suoi uomini, a supportarli, a scusare un errore e a difenderli a spada tratta con il top management. E noi eravamo pronti a gettare il cuore oltre l’ostacolo quando ci chiedeva uno sforzo extra. Non perché lo chiedeva l’azienda, ma perché lo chiedeva LUI.

Uno dei peggiori capi che io abbia avuto era un Sales Director. Anche in quell’occasione era una multinazionale, e io ero sempre un key account. In una particolare circostanza ho commesso un errore abbastanza rilevante. Ho cercato di spiegargli che stavo attraversando un periodo difficile della mia vita, con gravi problemi familiari. E mi sono sentito rispondere (soprattutto la sua metacomunicazione ha fatto la sua parte) che i miei fatti personali non lo riguardavano. In quel preciso istante io ho deciso che mi dovevo allontanare da lui, anche a costo di dimettermi. Poi lui se ne andò subito dopo, e prima di me, ma questa è un’altra storia…


La chiusura della trattativa. Questa sconosciuta.

 

Durante i miei corsi di vendita ho spesso modo di verificare come le tecniche di chiusura siano sottovalutate o trascurate dai venditori. Sia nelle vendite in negozio, sia in quelle complesse B to B. I motivi sono vari: – La convinzione che se l’offerta è valida sarà il cliente a dire “Ok compro” – Viversi più come dei consulenti che come “venditori”, specialmente in settori molto tecnici – La convinzione che le tecniche di chiusura siano poco “etiche”, e sottendano un fine di manipolazione. In realtà si deve tenere conto di tre fattori: – Qualsiasi cosa noi diciamo produce un effetto sulla volontà di chi ci sta di fronte. La differenza sta solo nell’utilizzo consapevole della nostra comunicazione verbale e non verbale. – La chiusura della trattativa è una fase fondamentale della vendita. E deve rientrare nel bagaglio delle competenze di un venditore professionale. Altrimenti si diventa solo un fornitore di informazioni. – La convinzione che il cliente comperi di sua spontanea volontà una volta ricevuta un’offerta coerente con le sue esigenze/richieste è illusoria. Esiste un’ampia schiera di persone che per carattere sono indecise, hanno bisogno di confronti, e devono essere letteralmente supportate nel processo di acquisto.


Il valore della forma. Solo educazione o lungimiranza…?

Si sente dire spesso che nell’era della velocità e del tempo reale i contenuti abbiano assunto  un’importanza preponderante nei confronti della forma, che non si ha più il tempo di rispettare ed applicare.

E così ci ritroviamo di fronte a tanti cambiamenti soprattutto nell’ambito della comunicazione interpersonale parlata e scritta.

Chi spedisce un CV non si vede più rispondere “la ringraziamo per ….”

Chi telefona spesso non riceve risposta, non riceve un messaggio, o viene richiamato

Chi si trova ad interagire con un interlocutore, sia in presenza sia al telefono non riceve o non dice un “buongiorno”

Chi invia un’offerta aspetta invano un semplice e laconico “grazie, non siamo interessati”

Chi approccia e incontra potenziale cliente lo vede poi scomparire senza più ricevere risposte, anche di fronte ad una educata e gentile richiesta di chiarimento o feedback…

Chi concorda una serie di azioni e cambia programma senza sentirsi in dovere di informare il suo interlocutore

La mail non riporta più i saluti in testa e in coda, e men che meno qualche convenevole di rito

Ma è proprio tutto inutile….?

Ci sono vari motivi e scuole di pensiero che invitano al contrario

  • La semplice norma di educazione. Un puro fatto formale: la prassi dice che nella tale occasione si dovrebbe….
  • Un fatto etico. Chi si interfaccia con te merita rispetto
  • Una visione “metafisica”: ciò che fai prima o poi in una forma o un’altra ti torna indietro
  • Last, but not least, un fatto utilitaristico. Che può generare effetti positive sia nel breve sia nel lungo periodo.
    • Nel breve periodo chi si sente rispettato sarà più probabilmente motivato e collaborativo. E viceversa la mancanza di attenzione genera nella migliore delle ipotesi performance da “minimo sindacale”, nella peggiore comportamenti ostruzionistici, che sono sempre possibili anche stando all’interno dei regolamenti.
    • Nel lungo periodo…. Le persone ricordano. Anche a distanza di anni. E se la forma con la quale sono state trattate è piaciuta quel ricordo ha generato una buona impressione, questo potrà generare opportunità in vari modi. Per l’assegnazione di un progetto, per l’offerta di una posizione
  • Poi a titolo personale, la modesta opinione di chi scrive è che in un contesto sociale sempre più sgretolato dalla Digital transformation, che crea spesso isolamento e mancanza di interazioni “reali” dovremmo ricordarci che viviamo comunque in un mondo di persone, e certi comportamenti ed interazioni migliorano semplicemente la qualità della vita.

Il servizio di qualità. L’ultima arma contro la guerra sui prezzi.

Una scelta inevitabile.

Nel mondo della stampa, così come in diversi altri settori, l’avvento del web ha generato fra gli altri alcuni  importanti effetti:

  • Un livellamento dei prezzi medi verso il basso, determinato dall’ingresso sul mercato di attori in grado di operare su scala internazionale, giovandosi di numerose economie di scala
  • Una maggiore trasparenza del mercato, data dalla possibilità da parte dei compratori di fare comparazioni sui prezzi in tempo reale comodamente seduti sulle loro poltrone.

Le aziende che per struttura non possono permettersi di essere leader di prezzo, o che per vocazione preferiscono posizionarsi diversamente, per sopravvivere e auspicabilmente anche prosperare in questo scenario hanno una sola strada:

  • evitare di rincorrere le trattative dove si gioca al ribasso, contraendo la marginalità fino all’osso o addirittura arrivando al sottocosto
  • puntare a fidelizzare i clienti esistenti e ad attrarne di nuovi puntando sul livello di servizio offerto.

Ed è su questo ultimo punto che ci concentriamo, perché spesso questo concetto viene frainteso, o applicato in modo parziale e di conseguenza inefficace.

Un mondo fatto di dettagli e di percezioni.

Il primo concetto che deve essere assolutamente chiaro è che il servizio è una prestazione costituita da una serie di elementi, che sono come gli anelli di una catena: se si rompe un anello, si rompe la catena! L’azienda deve porre quindi massima attenzione a costruire tutti gli elementi della catena, che analizzeremo fra poco, uniformando il loro livello. Se fornisco prestazioni a livello diseguale il giudizio del cliente si posizionerà sul livello più basso. Per intenderci, se sono velocissimo ad eseguire un preventivo e una prova di stampa e poi sono lento nella consegna sarò percepito come Lento.

Il secondo concetto fondamentale è che il servizio, molto più del prodotto, che possiede caratteristiche tecniche intrinseche, dipende dalle percezioni di chi lo riceve. Se ricevo 500 copie di un folder formato A5 stampate in fronte retro, sono quelle. La chiarezza del sito internet, o la gentilezza della persona al telefono dipendono da valutazioni molto più soggettive, legate alle aspettative del cliente. (box: come si generano le aspettative)

[le aspettative di una persona rispetto al servizio fornito da un’azienda sono determinate da:

  • Esperienze passate. Se sono abituato a mangiare in ristoranti con stella Michelin la mia aspettativa è comunque alta
  • Comunicazione aziendale. Ciò che l’azienda dichiara di sé mi fa pretendere coerenza con ciò che offre effettivamente
  • Tratti della personalità. Posso essere una persona con un carattere estremamente esigente e perfezionista o una persona più tollerante e che “se la fa andar bene”
  • Passaparola. Se un conoscente/collega mi parla bene o male di qualcosa influenza la mia attesa su quello che riceverò. Il mondo delle arti grafiche è sufficientemente di nicchia per rendere questo fattore molto influente.
  • Standard di mercato. Ogni mercato ha i suoi benchmark di riferimento. Amazon ad esempio ha rivoluzionato il concetto dei tempi di consegna, influenzando l’intero comparto]

Le fondamenta.

Andiamo ora ad esaminare nel dettaglio le caratteristiche base di un servizio, alle quali tutte le aziende devono prestare attenzione.

  • Prestazione base. La capacità di recepire le richieste del cliente ed eseguirle esattamente come da specifiche. Per quanto possa sembrare banale, mi posso dotare delle migliori attrezzature, software e processi produttivi, realizzare il migliore stampato del mondo, ma devo essere assolutamente certo di essere in grado di acquisire gli input del cliente ed eseguirli senza errori o malintesi. Errori e rifacimenti generano costi e perdite di immagine.
  • Capacità di risposta. Qui stanno tutte quelle attività connesse con i TEMPI. Dal tempo che impiego a ricevere una risposta quando chiamo al telefono, o quando scrivo una mail, al tempo di consegna, al tempo in cui viene gestito un disservizio, ai tempi di risposta del sito internet, e così via. Questa variabile ha assunto via via maggiore rilevanza a causa della progressiva velocizzazione di qualsiasi attività.
  • Aspetti tangibili. Per quanto il “servizio” sia per definizione immateriale, ci sono degli aspetti che ricadono comunque sotto l’esperienza sensoriale del cliente, e che influenzano la sua percezione. Quindi dal biglietto da visita, al look del venditore, alla sede dell’azienda anche se compare in fotografia, al furgone che consegna, allo stand in una fiera, alla grafica del sito web e così via. Un aspetto scadente di questi elementi tangibili genera una ricaduta negativa. Come un cameriere che serve un piatto raffinato in un ristorante di lusso con la livrea macchiata.
  • Capacità di rassicurazione. Il servizio molto più del prodotto genera incertezze nella mente del cliente, che spesso si chiede “cosa succede se….?” Tanto più ha la sensazione di rivolgersi ad un fornitore affidabile tanto più continuerà a rivolgersi allo stesso. Gli strumenti per gestire questa variabile sono
    • Referenze. Hanno un effetto potente sul conformismo delle persone e sul loro livello di ansia.
    • Comunicazioni aziendali sulla credibilità e l’esperienza, via internet e sugli altri strumenti che veicolano l’immagine aziendale (“professionisti della stampa da 35 anni”)
    • Certificazioni, delle attrezzature e degli operatori
    • Competenza degli operatori che forniscono una risposta chiara e documentata
    • Indicazioni contrattuali chiare, precise, e ben evidenziate (“non sei soddisfatto del lavoro? Puoi scegliere fra rifacimento e rimborso”; “se il lavoro non è consegnato nei tempi prestabiliti hai diritto a una riduzione del prezzo dell’x%”)
    • Nel caso di un servizio fornito on line, la presenza di un help desk effettivamente raggiungibile ed evidenziato nel sito senza che il cliente debba fare acrobazie per rintracciarlo è fondamentale. Ovviamente una volta creata l’aspettativa l’help desk dovrà essere funzionante, efficiente, e non gestito da uno stagista poco istruito….
  • Il fattore umano e la relazione esistono ancora. Le persone che svolgono ruoli per cui si ritrovano anche occasionalmente ad interfacciarsi con il cliente devono essere sensibilizzate sull’importanza del modo in cui si rivolgono allo stesso, e sulla qualità della loro comunicazione interpersonale. Dal saluto, al congedo, alla gestione dell’obiezione e della critica, ecc.

L’insieme congiunto di queste componenti genera la percezione complessiva del servizio ricevuto.

Il percorso virtuoso.

Una volta individuati i livelli di performance per ogni singolo elemento del servizio, l’operazione successiva consiste nel costruire la Mappa dei momenti della verità. Cioè l’insieme di tutti i momenti di contatto fra la nostra azienda e il cliente, durante i quali si forma la percezione del servizio che stiamo fornendo. Dalla prima visita al sito internet, o addirittura al posizionamento sul motore di ricerca, fino ad un messaggio di ringraziamento ad ordine evaso.

Facciamo un esempio. Il cliente telefona per formulare una richiesta. La nostra performance potrà essere “spacchettata” come segue:

  • La sua richiesta è stata compresa correttamente ed è stata fornita una risposta soddisfacente? (prestazione base)
  • Quanto tempo ha aspettato il cliente prima che qualcuno rispondesse? Quanto tempo prima di parlare con la persona giusta? Quanto tempo prima di ricevere la risposta alla sua richiesta? (capacità di risposta)
  • L’eventuale segreteria fornisce un messaggio chiaro? Ha una musica di sottofondo gradevole? (aspetti tangibili)
  • Gli eventuali dubbi o perplessità che ha sollevato sono stati rimossi? Le persone che hanno parlato con il cliente hanno mostrato competenza e professionalità? (capacità di rassicurazione)
  • Le persone che hanno parlato con il cliente si sono mostrate gentili e disponibili? Hanno instaurato una transazione personale positiva con il cliente? (empatia)

Questo approccio molto analitico risulta necessario per tutti i momenti di contatto fra il cliente e la nostra azienda, per individuare con cura ogni aspetto del servizio che forniamo, e per individuare le eventuali aree critiche. Sappiamo che la soggettività regna sovrana, e quindi ogni cliente può attribuire valore ad un aspetto che considera personalmente rilevante!

Chiediamolo a loro!

Come ottenere una corretta valutazione del nostro livello di performance? Chiedendolo ai clienti. La nostra valutazione soggettiva risente sicuramente della predisposizione verso certe variabili e può trascurarne altre. Si rende quindi necessario effettuare una indagine sulla soddisfazione del cliente, attraverso un questionario strutturato, da riproporre periodicamente (una volta all’anno può bastare) per verificare sia la performance attuale, sia eventuali miglioramenti o peggioramenti. (v. box: Customer satisfaction survey)

Il percorso si conclude.

Da ultimo, gli interventi correttivi. Dobbiamo porre molta attenzione alle cause che determinano una performance al di sotto del livello richiesto dal mercato. In particolare può dipendere da:

  • Insufficiente comprensione delle esigenze e delle aspettative del cliente (vedi box 2). Un’azienda troppo centrata sulla sua cultura interna, che non ascolta attentamente il cliente rischia di configurarsi in modo inadeguato. Si richiede quindi di sviluppare un maggior orientamento al mercato.
  • Carente definizione interna degli standard di qualità per ognuno dei parametri. Se i dipendenti non sanno con chiarezza quale livello di performance ci si aspetta da loro, probabilmente lo rispetteranno in modo casuale. La definizione degli standard deve essere effettuata in modo rigoroso e comunicata in modo inequivocabile ai collaboratori
  • Mancato rispetto in fase di esecuzione. Le cause possono essere molte. Personale non addestrato o privo delle competenze necessarie, attrezzature obsolete o non all’altezza, subfornitori inaffidabili (ad. Es. nelle consegne). Gli interventi richiesti sono quindi molteplici e specifici
  • Comunicazione esterna errata. Se dichiaro di avere un help desk che risolve tutti i problemi e poi non risponde mai al telefono ho creato un’aspettativa scorretta. Si richiede quindi coerenza fra le competenze e le performance interne e ciò che si dichiara al mercato.

Una volta individuate le cause, il management dovrà apportare gli adeguati interventi correttivi, partendo dalle aree dove maggiore è il gap fra l’importanza dichiarata e la percezione del servizio erogato.

Un servizio eccellente si crea con un approccio strutturato.

Il primo obiettivo di questa trattazione è sensibilizzare il management delle aziende di stampa sul fatto che un servizio di qualità non si crea con la buona volontà e l’impegno a “fare le cose bene”. Si richiede invece un approccio analitico e quantitativo per individuare con precisione i nostri livelli di performance secondo la percezione dei clienti, e attrezzare l’azienda con gli strumenti adeguati per rispondere correttamente alle loro aspettative. Solo in questo modo ci si può differenziare da chi lotta solo sul prezzo, e trattenere i target di clienti più sensibili al livello di servizio che alle condizioni economiche

 

 


L’intelligenza emotiva. Una risorsa inutilizzata.

 

A 20 anni dall’uscita del classico “Working with emotional intelligence” di Daniel Goleman, seguìto da una pletora di studi sull’argomento dell’intelligenza emotiva, e sul suo utilizzo nel mondo aziendale, le emozioni sembrano spesso ancora un tabù da tenere nascosto.

Manifestare in modo aperto e sincero le proprie emozioni appare a molti come un segno di debolezza, o indice di scarso autocontrollo. Fare leva sulle stesse come leva di motivazione e di aggregazione dei collaboratori è ancora dominio di pochi, che per lo più agiscono su base spontanea e non con un approccio metodologico.

Sembra che l’etichetta di “dipendente” o di “collaboratore” causi una sorta di spersonalizzazione, a seguito della quale l’essere umano, inserito in un contesto lavorativo, si lasci improvvisamente alle spalle il mondo di sentimenti e reazioni emotive che gli appartiene nella vita privata. Quindi si fa leva esclusivamente sul rapporto gerarchico, e sul modello premio/punizione.

La non idoneità di questo approccio risulta tanto più evidente in tempi recenti, durante i quali si deve fare appello più che in passato alla disponibilità delle persone, si chiede loro di dare il 110% per superare momenti di crisi e di difficoltà.

In quei casi le leve tradizionali non servono, e caratteristiche come l’empatia, il supporto personale, le abilità sociali non risultano solo migliori, ma strettamente necessarie.


Vita lavorativa e vita privata.

 

Quando parlo di gestione del tempo dedico sempre una parte del corso alla vita privata. Perché spesso sembra che solo nell’area lavorativa si debbano avere obiettivi da raggiungere, e attività importanti da mettere in agenda. E invece:

  • La quantità e la qualità del tempo speso sul lavoro incide inesorabilmente sulla qualità complessiva della nostra vita, della salute psicofisica e della vita di relazione. Le tensioni sul lavoro, lo stress eccessivo, la spasmodica focalizzazione sul raggiungimento degli obiettivi, il pranzo al volo discutendo di lavoro, danneggiano la Persona.
  • La mancata attenzione sulle aree chiave della nostra vita causa scompensi che si possono prolungare per anni. Se si chiede a chiunque se sono importanti la salute e gli affetti familiari la risposta è ovviamente sì. Però poi incontri inspiegabilmente persone che si ritrovano venti chili sopra peso, che prendono la pillola per la pressione, che non conoscono i loro figli, che si ritrovano con relazioni sentimentali e affettive compromesse. Il tutto per avere perso il focus sulle aree IMPORTANTI della loro vita, e non avere dedicato loro TEMPO.

Credo che la gestione equilibrata della propria vita sia un imperativo che ogni persona si dovrebbe porre. Prima di ogni altro.


Il valore dell’esperienza.

 

 

Non l’ho compreso per tanto tempo il valore dell’”esperienza”. Forse perché avevo dentro di me un concetto limitato, ristretto.

Pensavo che l’esperienza fosse quella capacità di svolgere un’azione nel migliore dei modi dopo averla eseguita tante volte. Che si trattasse di un lavoro manuale, di un servizio, di una interazione personale, la ripetitività doveva conferire all’esecutore una maggiore disinvoltura, maggiore precisione, minore possibilità di errore.

Poi con il passare degli anni questo concetto si è progressivamente esteso. L’esperienza non riguarda solo l’azione specifica, non viene solo dalla ripetitività. Ma dall’arricchimento personale. Dalla capacità di guardare con vedute più ampie

Elementi acquisiti da altre discipline e situazioni aumentano la tua cultura, ti consentono di vedere le cose da un differente punto di vista, di individuare particolari e sfumature delle azioni da compiere, che in una fase iniziale restavano nascosti.

Esperienza significa quindi anche libertà di scelta. Quando hai percorso più strade per arrivare al medesimo traguardo, non avrai necessariamente trovato quella Giusta da percorrere. Ma avrai imparato come scegliere quella giusta per ogni tuo singolo viaggio.

P.S. recruiters  tenetene conto nelle vostre valutazioni..


Circoscrivere.

Questo è un termine poco usato nella terminologia aziendale. Si pensa più facilmente ad un incendio, o a una perdita idrica.

Eppure la capacità di “circoscrivere” ci può dare spesso una marcia in più nella gestione e risoluzione di una serie di situazioni problematiche.

Circoscrivere una questione in realtà assume numerosi significati:

  • In una riunione attenersi all’oggetto specifico della discussione, restando focalizzati sull’obiettivo;
  • Quando un cliente solleva un’obiezione delimitarne l’ambito, ridurre a determinazioni quantitative, rifrasare le sue affermazioni;
  • Durante una negoziazione definire il limiti della trattativa ed evitare di sconfinare dai margini prestabiliti;
  • Nella gestione del proprio tempo, assegnare alle attività un tempo proporzionale alla loro importanza e non lasciarci governare dalle urgenze del momento
  • In una relazione interpersonale evitare di spostare l’oggetto della conversazione sul versante emozionale, inquinando il tenore della conversazione.

E in fondo, dato che siamo persone, e non viviamo solo quando lavoriamo, proviamo a pensare quanti scontri, diverbi, litigi sono derivati proprio dal non essere stati capaci di circoscrivere la discussione a quello stupido dettaglio, a quella manica stropicciata. E avere fatto di un topolino una montagna….


Jazz e Public Speaking. 

Un discorso in pubblico può essere paragonato ad un concerto Jazz, dove lo speaker è il solista più importante (ad es. il pianista). Cosa li accomuna? In entrambi i casi il protagonista, se è bravo, mostra la disinvoltura di chi sta parlando a braccio, o improvvisando. Invece si è preparato accuratamente e ruota attorno ad un canovaccio, prendendosi la libertà di deviare dal percorso, e ritornandoci, conoscendo bene l’inizio e la fine della performance, e i punti salienti da sottolineare. In entrambi i casi la performance non si riduce a una sequenza di argomenti, ma racconta una storia, cioè una vicenda dalla quale ci sentiamo avvinti, o un percorso melodico dal quale ci sentiamo trasportati. E la voce e il linguaggio del corpo aggiungono emozione alle parole esattamente come la coloritura delle note fornisce il pathos alla frase musicale. In entrambi i casi il protagonista sa prevedere e assecondare i contributi di altri: chi fa domande durante il suo speech, gli altri strumentisti durante i loro assoli. E detta i tempi con i quali si svolge il tutto. La morale? Ascoltate i concerti dei grandi jazzisti e traetene ispirazione per i vostri speech!

(ph: D. Medri)