A 20 anni dall’uscita del classico “Working with emotional intelligence” di Daniel Goleman, seguìto da una pletora di studi sull’argomento dell’intelligenza emotiva, e sul suo utilizzo nel mondo aziendale, le emozioni sembrano spesso ancora un tabù da tenere nascosto.
Manifestare in modo aperto e sincero le proprie emozioni appare a molti come un segno di debolezza, o indice di scarso autocontrollo. Fare leva sulle stesse come leva di motivazione e di aggregazione dei collaboratori è ancora dominio di pochi, che per lo più agiscono su base spontanea e non con un approccio metodologico.
Sembra che l’etichetta di “dipendente” o di “collaboratore” causi una sorta di spersonalizzazione, a seguito della quale l’essere umano, inserito in un contesto lavorativo, si lasci improvvisamente alle spalle il mondo di sentimenti e reazioni emotive che gli appartiene nella vita privata. Quindi si fa leva esclusivamente sul rapporto gerarchico, e sul modello premio/punizione.
La non idoneità di questo approccio risulta tanto più evidente in tempi recenti, durante i quali si deve fare appello più che in passato alla disponibilità delle persone, si chiede loro di dare il 110% per superare momenti di crisi e di difficoltà.
In quei casi le leve tradizionali non servono, e caratteristiche come l’empatia, il supporto personale, le abilità sociali non risultano solo migliori, ma strettamente necessarie.
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