Storytelling.

La comunicazione tradizionale non è più efficace. Occorrono nuove tecniche e nuovi strumenti per ottenere riscontri positivi da parte dei nostri target.

Il mondo della comunicazione è cambiato moltissimo negli ultimi anni. E così le aspettative del pubblico. Siamo sottoposti a un costante assedio da parte dei media tradizionali, del web e dei social network. La immensa quantità di messaggi alla quale siamo esposti quotidianamente genera un calo globale dell’attenzione, una minore focalizzazione e una maggiore superficialità. Guardiamo lo smartphone più di 100 volte al giorno. Di conseguenza, solo la comunicazione che è in grado di suscitare emozioni ha qualche probabilità di ricevere attenzione, e di essere ricordata. Sorge quindi la necessità di adottare tecniche che ottengano questo risultato. Parleremo in questo articolo di Storytelling, una tecnica che viene già adottata da tempo nei settori a maggiore valenza emotiva, come la moda, il mondo del luxury, la profumeria. Ma che si sta rapidamente diffondendo in tutti gli altri settori. Si parla oggi di “fiction economy”, dove la parte simbolica, emotiva e valoriale della realtà ha la meglio su quella funzionale, che pur mantiene la sua importanza. Ma la differenza la fa il racconto che viene costruito attorno alla stessa.

[Comunicazione descrittiva ed emozionale. Un ottimo esempio di questa differenza mostrato dalla catena alberghiera Shangri-la. Su Youtube si possono vedere vari filmati di comunicazione descrittiva, dove gli alberghi sono mostrati nei loro dettagli (camere, servizi, ecc..) e d’altro canto c’è un magnifico esempio di comunicazione emozionale, in un filmato dove si vede invece un uomo che si trova disperso in mezzo a una tempesta di neve e che viene soccorso da un branco di lupi, con il messaggio finale “accogliere uno straniero come uno di noi è nella nostra natura” https://www.youtube.com/watch?v=J4jZ1UFR_Wc ]

Spiegheremo quindi il significato di questo termine, e quali possano essere i suoi utilizzi pratici ai fini di una comunicazione aziendale più efficace.

Storie, compagne di vita. Tutti noi nasciamo e cresciamo ascoltando storie, favole, racconti. E in questo modo scopriamo il mondo, impariamo il senso della vita, apprendiamo i valori di riferimento. E inconsapevolmente andiamo avanti a farlo per tutta la vita. La storia, attraverso i suoi protagonisti e il suo svolgimento attrae la nostra attenzione, suscita le nostre emozioni, e resta impressa nella nostra memoria. Seguiamo una storia per vedere come va a finire. Da questo principio generale trae spunto la tecnica dello Storytelling, per generare una differente modalità di comunicazione rispetto alla tradizionale, per emozionare e relazionarsi meglio con il proprio pubblico.

Riteniamo importanti due precisazioni preliminari. Il termine “storia” ha diversi significati. Qua ci riferiamo a quello che ha come sinonimo più vicino il termine “racconto”. E non come invece intende la materia di studio, la cronaca di una successione di eventi, priva di emozioni. Inoltre, spesso l’espressione “raccontare storie” è associata al significato negativo di dire fandonie, che non fanno parte della nostra trattazione, che è più che mai sincera.

Lo storytelling non è un’attività per creativi, artisti e cantastorie, ma un’attività strutturata, che tende a costruire un racconto attorno a se stessi, alla propria impresa, ai propri servizi.

È importante anche sapere che tramite le storie si vende. È provato che gli oggetti attorno ai quali viene costruita una storia assumono un maggior valore rispetto a quelli che ne sono privi.

[Storyselling. In un Famoso esperimento condotto negli stati uniti, e descritto nel sito www.significantobjects.com due persone hanno acquistato in un mercatino oggetti di valore trascurabile (poco più di un dollaro), hanno fatto scrivere delle storie attorno a questi oggetti e li hanno messi in vendita su Ebay corredati dei relativi racconti, ottenendo un ricavo di ordini di grandezza superiore rispetto alla spesa]

La struttura dello storytelling. Due autori americani (1) hanno a distanza di tempo codificato gli elementi base di una storia e successivamente individuato la loro costante presenza nel corso dei secoli nell’immaginario collettivo. Nella sua configurazione essenziale, una storia è una rappre­sentazione scritta, visiva, sonora di fatti che possono essere accaduti o meno. È costituita da un protagonista (un essere umano, ma anche un animale o un oggetto che si comporti come tale), che in un preciso contesto spaziale e temporale compie degli sforzi per raggiungere un obiettivo incontra delle difficoltà, e spesso anche grazie all’aiuto di qualcuno le supera, per arrivare al classico lieto fine. In quanto rappresentazione, un racconto porta sempre con sé: un punto di vista specifico sul mondo, dei valori riconoscibili, comportamenti e sentimenti, e un messaggio finale.

Se pensate ai racconti che avete letto e ai film che avete visto, dai Promessi Sposi a Rambo alle moderne fiction la stragrande maggioranza ricalca questa struttura essenziale.

Come lo utilizzano le aziende? Lo storytelling può essere adottato dalle aziende sia per comunicare internamente sia esternamente.

Quando l’azienda parla ai propri dipendenti/collaboratori, i racconti tendono a: informare, di solito su politiche e prassi di lavoro; motivare, tendenzialmente per accettare nuovi cambiamenti; orientare, generalmente verso l’assunzione di certe modalità di comportamento; persuadere, ad assumere certi atteggiamenti interni; promuovere, molto spesso servizi interni.

Attraverso un racconto, che può prendere le mosse dalla storia dell’azienda, o del suo fondatore, o da un episodio significativo del passato, si può generare e aumentare la motivazione dei collaboratori, che per attivarsi hanno sempre bisogno di un “perché” (2). La tenacia dei fondatori, i sacrifici per arrivare al successo, il rispetto dei valori uniscono, e creano senso di appartenenza. Al contrario, una fredda comunicazione via mail, o l’emanazione di una procedura non generano alcun effetto emotivo.

Quando parla all’esterno, l’azienda può utilizzare lo storytelling per parlare di sé o dei suoi prodotti e servizi.

Nel primo caso L’impresa raccontando la sua storia esprime la sua visione, la sua missione. Crea un senso di identità con i clienti, ma anche con gli stakeholders (fornitori, investitori, parti sociali). Dato che negli ultimi anni sta assumendo sempre maggiore importanza la cosiddetta responsabilità sociale dell’azienda, lo Storytelling può essere molto utile per raccontare le origini e i principi su cui si regge l’azienda.

[La corporate social responsibility. Questo concetto, già assorbito dalla comunità Europea, e oggetto di varie regolamentazioni, ha a che vedere con gli obblighi che deve avere l’azienda non solo nei confronti dei lavoratori e degli stakeholders, ma anche del territorio, dell’ambiente, della salute e della sicurezza relativi al contesto sociale in cui è inserita. La storia dei progressivi passi verso questo obiettivo è un elemento valoriale molto rilevante].

Ma in una estrema semplificazione lo Storytelling aziendale può risolversi anche solo nell’insegna di un negozio. Pensate alla differenza fra questi testi: “Pasticceria”; “Pasticceria di Paolo e Carlo Rossi”; “Paolo e Carlo Rossi. Pasticceri dal 1960”.

Nel secondo caso invece, i racconti infatti tenderanno a: convincere a comprare i propri prodotti e servizi facendo leva su razionalità e logica; enfatizzare le componenti emozionali dei prodotti e servizi, e

  • nella legittimazio­ne dei propri valori nei quali si deve identificare il destinatario.

Il racconto del prodotto va, come abbiamo sottolineato all’inizio, ben al di là delle sue caratteristiche fisiche e tecniche, e anzi spesso non le menziona proprio. Siamo passati dalle aspettativa “funzionali” a quelle Finzionali” [box 4].

[Volkswagen e l’orecchino. Un simpatico modo per raccontare l’affidabilità dei veicoli Volkswagen viene già adottato dalla casa tedesca nel 1991. Un autista alla guida di una Golf sente un cigolio, cerca di scoprire quale parte della macchina lo stia provocando, si ferma da un meccanico per scoprire che il cigolio veniva dall’orecchino della compagna seduta al suo fianco. Il messaggio finale è “Volkswagen, c’è da fidarsi. Visibile su Youtube https://www.youtube.com/watch?v=aJWs9ErIWIs%5D

Tramite lo storytelling si possono comunicare le valenze del proprio prodotto/servizio che si desidera sottolineare, ad esempio: Curare: l’oggetto ti porta beneficio fisico o psichico; Produrre comunità : l’oggetto ti porta e ti fa sentire parte di un gruppo; Risolvere problemi: l’oggetto è un dispositivo di problem solving; Generare possesso o avere: l’oggetto ti dà status; Affidabilità: l’oggetto da sicurezza grazie alla sua efficienza e alla sua durata nel tempo.

In conclusione, riteniamo importante riassumere alcuni punti importanti della nostra trattazione.

Lo Storytelling deve generare una Emozione nel destinatario. Questo aumenterà la sua attenzione, il suo coinvolgimento e il suo ricordo.

Lo storytelling va al di là dei contenuti e crea una relazione positiva fra chi racconta e chi legge, guarda o ascolta, che si identifica nei valori comunicati dal mittente.

Le storie che raccontiamo devono essere profondamente coerenti con la nostra identità e il nostro modo di operare. Se il destinatario percepisce uno scostamento evidente fra la storia e la realtà dei fatti otterremo solo un effetto controproducente. Come gli avessimo “raccontato una storia”.

Note

‘ (1) Joseph Campbell – L’eroe dai mille volti – Lindau – Christopher Vogler – Il viaggio dell’eroe – Audino

‘ (2) Simon Sinek – Partire dal perché – Franco Angeli


Leadership.

Come essere leader oggi per garantire continuità e performance positive alla propria azienda.

La figura del leader nasce molto prima delle aziende. La troviamo nelle istituzioni, negli eserciti, negli sport di squadra. Il suo ruolo è fondamentale: assicurare all’organizzazione che conduce il raggiungimento degli obiettivi per cui è stata creata. In certi casi l’obiettivo può essere la vittoria o la supremazia, in altri la pura sopravvivenza.

Qui ci occuperemo ovviamente del mondo aziendale. E la prima considerazione da fare è che a differenza delle varie aree funzionali (amministrazione, vendite, logistica, ecc.), nelle quali il miglioramento della performance avviene a seguito di un  affinamento delle tecniche, con la leadership il discorso è più complesso, perché richiede molta più flessibilità e adattabilità al contesto da parte del manager.

In questo articolo indicheremo le aree che un capo deve presidiare e le modalità per gestirle in modo da coprire efficacemente il suo ruolo.

Prima di iniziare una precisazione d’obbligo. Qua non ci riferiamo a quei personaggi visionari e carismatici che sono tradizionalmente associati alla figura del leader, partendo da Giulio Cesare e arrivando a Steve Jobs. L’oggetto della nostra trattazione ha a che fare con manager e imprenditori di piccole/medie imprese che gestiscono le loro organizzazioni nella concreta quotidianità.

Scendendo quindi nel pratico, andiamo a vedere dove un manager in azienda deve assolutamente svolgere la sua funzione.

Assicurare il funzionamento della “macchina”.

Questa è la funzione più tradizionalmente legata a questo ruolo. Da una parte sono indispensabili conoscenze tecniche: l’oggetto delle mansioni dei propri collaboratori e i tempi di esecuzione, le loro interazioni, i collegamenti con le altre funzioni; dall’altra occorrono capacità decisionali e organizzative: il manager dovrà quindi gestire al meglio le sue risorse; prevedere assunzioni e avvicendamenti, delegare compiti in funzione delle abilità e delle attitudini dei singoli, assegnare correttamente obiettivi e KPI, monitorare i risultati, ma anche scendere in dettagli strettamente operativi, come concordare orari e turni di lavoro, e gestire criticità momentanee.

A tutto questo si aggiunge un concetto relativamente nuovo, che sta assumendo una importanza crescente nelle organizzazioni dove viene richiesta maggiore flessibilità e lavoro “agile”: è importante che il leader non cerchi di presidiare ogni problematica, ma faccia in modo di assicurare una leadership su ogni processo. Ci saranno quindi progetti e situazioni che gestisce in prima persona, altri che sono assegnati per competenza, esperienza, motivazione ai suoi collaboratori, che anche temporaneamente ne assumono la gestione. Può trattarsi ad esempio della ricerca di una soluzione tecnica, della conduzione di un gruppo di lavoro su un tema specifico, della relazione con un cliente, secondo il principio della “leadership orizzontale”.

Fornire un “Perché”.

Nel suo bestseller “Why” Simon Sinek spiega chiaramente come a qualsiasi livello la motivazione delle persone ad agire dipende dal fatto che sia stato fornito loro un buon motivo. Molte volte durante i nostri corsi sentiamo espressioni di rammarico da parte di lavoratori a vari livelli, che ricevono solo ordini e disposizioni, senza che sia loro spiegato il motivo e il razionale dietro alle decisioni prese. Una parte importante del ruolo di un leader risiede proprio in questo ambito, e si divide in due momenti distinti: da una parte  trasferire correttamente e integralmente la cosiddetta “carta dei valori”, cioè i principi base sui quali è fondata l’azienda e la sua missione nello stare sul mercato. Ad esempio,  l’ecosostenibilità, l’orientamento al cliente, l’innovazione, il rispetto della diversità, ecc. [1]. Dall’altra, se si tratta di un imprenditore, spiegare e fornire adeguate motivazioni  per le scelte aziendali; Se si tratta di un manager, trasferire correttamente i messaggi aziendali che ha ricevuto dalla direzione generale o dalla proprietà. Talvolta questo compito può risultare difficoltoso. Il manager può anche non trovarsi pienamente d’accordo con certe scelte o strategie aziendali. Ma è suo dovere restare nel ruolo, ed evitare di deresponsabilizzarsi con espressioni rivolte ai suoi collaboratori del tipo “io non sono d’accordo ma dobbiamo farlo”, che generano inevitabilmente un effetto demotivante sulle persone.

Ottimizzare Il rapporto a due.

Un manager non è solo a capo di una organizzazione, ma è anche capo dei singoli individui

Ci preme sottolineare che la convinzione che esista uno stile di leadership adeguato per tutti è sbagliata. Ormai da anni il concetto di leadership situazionale ha mostrato la sua indubbia efficacia, e richiede al manager come competenza la flessibilità comportamentale.

Ci piace ricordare qua l’approccio tradizionale creato da Blanchard, che si basa sulla classificazione dei collaboratori secondo due variabili: la loro competenza ed esperienza professionale, e il livello di motivazione (v. immagine). Da questa suddivisione derivano quattro casistiche, che devono essere gestite in modo differente.

  1. Collaboratore competente e motivato: quello che vorremmo avere tutti, al quale possiamo delegare compiti anche complessi, che necessita di poco controllo e che viene gratificato soprattutto dal riconoscimento dei risultati acquisiti
  2. Collaboratore poco competente ma motivato. Richiede particolare attenzione per supportare il suo processo di crescita. Data la sua motivazione la strategia migliore sta nell’adottare il coaching, coinvolgendo il collaboratore, condividendo e concordando piani di sviluppo e obiettivi. Lo stile direttivo può risultare inefficace [2]
  3. Collaboratore competente ma poco motivato. Tipicamente persone esperte nel loro lavoro ma anche un po’ “sedute” a causa della ripetitività dei compiti e della probabile anzianità anagrafica. Si rende necessaria una rimotivazione, che può avvenire sia con una maggiore varietà dei compiti assegnati, o anche affidandogli la formazione di un collaboratore junior (“la tua è la miglior guida possibile per farlo imparare…”). In particolare, questa pratica può creare un circolo virtuoso che giova ad entrambi.
  4. Collaboratore poco competente e poco motivato. In questa posizione troviamo spesso risorse giovani probabilmente in cerca di una diversa collocazione, poco convinte e magari anche inadeguatamente inquadrate e retribuite. Qua (purtroppo, dobbiamo dire…) funziona più probabilmente uno stile direttivo, fatto di regole e disposizioni, e imperniato su un sistema di premio/sanzione.

Va detto che ogni manager ha un suo stile naturale di conduzione delle persone, e la sua abilità sta quindi nella capacità di uscire dalla propria area di conforto, per adottare via via l’approccio più adeguato alla persona e al momento.

Condurre un team e non un gruppo di persone.

Il team è qualcosa di differente rispetto alla somma dei singoli individui. E la sua performance può essere molto differente dalla somma delle singole performance individuali. Per chiamarsi “Team” le persone che lo costituiscono devono condividere un obiettivo comune da raggiungere, e avere fiducia reciproca. Questo si traduce in una costante collaborazione, vicendevole supporto e rapporti interpersonali positivi. Ci sono delle pratiche efficaci per fare in modo che questo avvenga: chiarezza e trasparenza della comunicazione interna verso tutti i componenti, non solo con fredde e-mail; equità; incentivo alla condivisione della conoscenza fra colleghi con riunioni e affiancamenti; ma anche pratiche orientate alla relazione, e normalmente poco adottate: celebrare i risultati positivi congratulandosi pubblicamente con i collaboratori, e creare momenti conviviali (pranzi, cene, aperitivi…) dove non si parla di lavoro ma si trascorre tempo assieme. Queste occasioni servono per creare coesione, e non vanno trascurate.

In conclusione, desideriamo fornire alcune raccomandazioni importanti.

Per essere efficaci come leader non basta “il grado sulla divisa”. L’autorità si può assumere in un giorno, a seguito di una nomina. L’autorevolezza invece richiede tempo, competenza, e soprattutto fornando l’esempio ai propri collaboratori. Spesso le persone scelgono di restare in azienda o anche di “gettare il cuore oltre l’ostacolo” proprio grazie alla conduzione del loro capo e alla fiducia che ripongono in lui/lei.

La gestione del tempo e delle priorità è essenziale per non lasciare scoperta nessuna delle aree sopra elencate. Di solito si privilegia solo la prima, senza allocare in agenda un tempo adeguato a gestire le risorse, come ad esempio un incontro di feedback con i collaboratori, o una riunione motivazionale.

Da ultimo, la via della professionalità non ha un punto di arrivo. Restare arroccati sulla propria preparazione senza mantenersi informati sugli scenari complessivi e sui trend di mercato, senza acquisire nuove competenze,  può essere molto pericoloso in questo periodo di cambiamenti repentini. Più un manager è attrezzato meglio saprà affrontare ogni tipo di evenienza. L’epoca della sola gestione efficiente dello status quo per ora è terminata.

[1]. La responsabilità sociale dell’azienda. Questo tema ha assunto una grande rilevanza negli ultimi anni. L’integrazione dell’azienda nel territorio in cui è presente, il rispetto per l’ambiente, la tutela delle maestranze sono elementi sempre più importanti per il successo di mercato, per il giudizio degli investitori, per attrarre risorse qualificate]

[2]. il colloquio di feedback. Gestito periodicamente, è un confronto individuale con il collaboratore. attraverso una sequenza serie di domande mirate, si analizza la sua situazione professionale, si verificano le aree critiche e si concorda un piano d’azione volto a conseguire degli obiettivi di miglioramento. E’ cruciale per la crescita e lo sviluppo delle risorse umane.]


Time Management.

Come cambia nell’era dello Smartphone e dello Smartworking

La gestione del tempo ha sempre rappresentato un problema per i manager, ma anche per molti impiegati con incarichi di responsabilità. Affermazioni ricorrenti che abbiamo sentito dai nostri clienti erano “Non ho mai abbastanza tempo per fare tutto”, “si lavora male, di fretta e per urgenza”, “sono stressato”, ecc.

Di recente tuttavia alcuni rapidi cambiamenti hanno sensibilmente accentuato il problema e ci pongono di fronte a nuove sfide da affrontare.

Da una parte c’è stato l’avvento di Internet veloce e dei dispositivi in mobilità, che ci consentono di essere costantemente connessi in ogni luogo e in ogni momento.

Dall’altra vediamo il progressivo inserimento dello Smartworking per le attività che non necessitano di una stabile presenza nella sede lavorativa, e questa modalità di lavoro modifica l’organizzazione individuale delle attività, e il rapporto con i tradizionali orari contrattuali.

Come se non bastasse, questi fenomeni hanno subito una brusca e drammatica accelerazione con l’avvento dell’emergenza Covid. Accelerazione che secondo molti esperti rappresenterà un punto di non ritorno, per cui torneremo solo in piccola parte alle condizioni preesistenti.

È importante sottolineare che queste dinamiche hanno avuto un impatto pesante anche sul cosiddetto “work/life balance”, l’equilibrio fra vita lavorativa e vita privata. Molti sono restati disorientati, e devono ancora trovare un punto di equilibrio accettabile nella separazione di questi ambiti.

In questo articolo cercheremo quindi di esaminare in particolare queste tematiche, cercando di offrire alcuni suggerimenti pratici per fronteggiarle al meglio.

Lo Smartphone. Effetti indesiderati e meno conosciuti.

Ci siamo abituati a considerare lo smartphone come una sorta di “Giano bifronte”, che da una parte ci consente di risparmiare tempo su molte attività, (acquisti, home banking, prenotazioni…) e dall’altra per converso ci porta via molto tempo in distrazioni superflue (chat, social network, giochini, mail indesiderate ecc.). Ciò che risulta meno evidente e meno noto riguarda una serie di implicazioni negative, comprovate da numerosi test neurologici, sulle quali riteniamo opportuno soffermarci.

Le applicazioni che utilizziamo sui nostri Smartphone creano dipendenza. I “likes”, le notifiche, i commenti, generano nel nostro cervello la produzione di Dopamina, che guarda caso è il neurotrasmettitore alla base delle più note dipendenze: fumo, droghe, gioco d’azzardo. Con la differenza che queste ultime vengono segnalate come pericolose, e ne viene proibito o limitato l’uso. Più utilizziamo il nostro telefonino più ne diventiamo schiavi. Provate a darvi l’obiettivo di non guardarlo per mezz’ora. Se questo vi costa fatica significa che avete sviluppato una forma più o meno grave di dipendenza. Che occupa una parte del vostro tempo al di là della vostra volontà cosciente e di ciò che è strettamente necessario.

L’utilizzo continuativo dello Smartphone causa disturbi dell’attenzione e problemi di focalizzazione. Specialmente nei minori. Maggiore è l’esposizione ai messaggi brevi che caratterizzano le chat, i commenti, gli SMS, minore diventa la nostra capacità di focalizzarci per un tempo prolungato su un compito specifico senza distrarci.

Allo stesso modo diminuisce la nostra capacità di autocontrollo. Le aree cerebrali destinate a controllare i nostri comportamenti sono influenzate negativamente e subiscono interferenze dal continuo attaccamento al display.

Da ultimo, viene inibita la presenza del cosiddetto “tempo vuoto”. Quel tempo in cui ci si ferma, si lascia spazio alla riflessione, all’analisi, alla pianificazione, al riparo da disturbi e stimolazioni esterne. Lo strumento è pervasivo, riempie continuamente il momento presente e ci porta sempre altrove.

Come risulta evidente non si tratta solo quindi di sprecare tempo consultando troppo il nostro telefonino, ma di riportare anche danni dal punto di vista psicofisico che impattano sull’efficacia della nostra performance.

Come difendersi.

Per evitare o per lo meno limitare questi effetti negativi, suggeriamo due differenti tipi di approccio.

Il primo è direttamente rivolto allo strumento, utilizzando i seguenti accorgimenti.

  • Controllate anzitutto il tempo e la modalità di utilizzo con una delle tante applicazioni esistenti. Quasi sicuramente stavate sottostimando il tempo dedicato.
  • Togliete le notifiche dalle applicazioni. Evitate di essere distratti dal richiamo costante alla consultazione e decidete voi quando aprirle.
  • Per lo stesso motivo chiudete le applicazioni dopo averle utilizzate, rendendo più difficoltoso l’accesso successivo.
  • Utilizzate un timer per imporvi di non utilizzare lo smartphone prima che sia scaduto il tempo prefissato.
  • Evitate di utilizzare lo Smartphone appena svegli e subito prima di coricarvi. La mente ha bisogno di essere sgombra all’inizio della giornata e di staccare al suo termine.

Il secondo approccio è più tradizionale, e prevede l’utilizzo della cosiddetta matrice “importanza/urgenza”. Riteniamo preliminarmente doveroso fornire una definizione chiara di questi due termini, che spesso vengono confusi o fraintesi.

Definiamo un’attività Importante quando è strettamente correlata al raggiungimento di un obiettivo, sia di breve sia di lungo periodo

Un’attività è definita invece come Urgente quando richiede un‘azione immediata. Quindi la richiesta del collega, del capo, del cliente, ma anche la telefonata, la notifica, la e-mail in arrivo, il messaggio nella chat. Tutti eventi che richiamano la nostra attenzione distogliendoci da ciò che stiamo già facendo.

La maggior parte di noi è abituata a lavorare per Urgenza, e a dare retta agli stimoli, via via che si presentano. Così facendo lasciamo che il tempo della nostra giornata sia “invaso” e in balia della volontà altrui.

L’approccio da seguire prevede quindi le seguenti fasi: 1) individuare a tavolino tutte le attività svolte nella propria mansione durante la giornata, 2) collocarle nei quadranti della matrice, 3) nella pratica, ogni volta che si presenta un’attività ricondurla al quadrante di riferimento e applicare la relativa azione come indicato nella matrice. Questo ci previene dall’eseguire azioni in modo automatico (ad es. rispondere a tutte le chiamate che arrivano) e di allocare in agenda attività Importanti ma non urgenti che altrimenti vengono sistematicamente rimandate (ad es. un colloquio di feedback con un collaboratore).

Vita privata addio.

Passiamo ora al secondo tema che impatta in modo rilevante sulla gestione complessiva del tempo: il lavoro in Smartworking.

Dal nostro osservatorio privilegiato di consulenti aziendali abbiamo modo di verificare situazioni che si ripetono con sempre maggiore frequenza: dilatazione delle ore lavorate, connessione costante sette giorni su sette, mail inviate la notte, telefonate e messaggi in chat fuori orario di lavoro.

Influisce molto la mancanza di stacco logistico fra il momento lavorativo e quello della vita privata. La classica frase “una volta fuori dall’ufficio mi lascio tutto alle spalle” non vale più. E molte persone si sentono coinvolte nelle problematiche aziendali proprio da quei dispositivi che creano la dipendenza che abbiamo descritto in precedenza.

In alcuni paesi il legislatore ha già provveduto a regolamentare questa disciplina, stabilendo da una parte il divieto a inviare corrispondenza di lavoro al di fuori degli orari previsti dal contratto, e dall’altra creando la figura del “diritto alla disconnessione”. Ma sappiamo bene che nel nostro paese certe regole hanno un significato formale, e poi vengono puntualmente disattese.

Ripristiniamo un equilibrio.

Ferme restando le raccomandazioni menzionate in precedenza, cerchiamo di fornire altri suggerimenti pratici.

  • Separate rigorosamente gli strumenti utilizzati per lavoro da quelli adibiti ad uso domestico: computer, tablet, smartphone. E spegnete gli strumenti di lavoro nelle ore serali e nei giorni festivi (a meno che non lavoriate in quelle fasce orarie)
  • Rispettate i medesimi orari di lavoro che avevate in azienda anche se siete a casa in Smartworking
  • Se proprio volete scrivere della corrispondenza fuori dall’orario di lavoro, lasciatela in bozza e inviatela durante gli orari di lavoro.
  • Recuperate durante la giornata momenti di convivialità on line. In molte società si inizia la giornata con un “update meeting” durante i quali ci si tiene al corrente sulle attività svolte, e anche dei coffee-break virtuali, durante i quali sono bandite conversazioni di lavoro.
  • Contrastate la vita sedentaria pianificando delle attività da svolgere negli orari extralavorativi, che vi costringano a interrompere gli altri impegni.

In chiusura di questo articolo ci permettiamo una considerazione conclusiva. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una crescente accelerazione nel ritmo del cambiamento. L’insegnamento principale che dobbiamo trarne è che le principali competenze da sviluppare in futuro saranno la flessibilità e la velocità di reazione. Quindi una parte del nostro tempo dovrà essere dedicato a monitorare i segnali spesso contraddittori proposti dall’ambiente, a sviluppare capacità di ascolto, e a pianificare le contromosse secondo una logica agile. I momenti di rottura determinati dalla tecnologia, dalla scienza, dalle dinamiche ambientali saranno sempre più frequenti. E rimanere ancorati ai modelli esistenti sarà sicuramente un atteggiamento perdente.

Bibliografia

Andrea Giuliodori – riconquista il tuo tempo – BUR

Monica Bormetti – Egophonia – Hoepli

Domenico De Masi – Smartworking – Marsilio


Coaching.

Una pratica molto decantata e raramente applicata.

Il termine Coaching è frequentemente adottato in modo improprio per descrivere attività molto differenti. Il nostro primo obiettivo in questo articolo è quello di separarlo dalle altre pratiche con le quali viene confuso.

Se eroghiamo formazione di carattere tecnico o comportamentale stiamo parlando di Training

Si ci occupiamo della crescita di una persona fornendole in modo prescrittivo sia indicazioni tecniche e comportamentali, sia regole generali di vita stiamo facendo Mentoring (1)

Se forniamo a una persona un supporto psicologico volto a superare specifici momenti di crisi o di cambiamento stiamo facendo Counseling

Quando parliamo di Coaching ci riferiamo invece a un’attività volta a favorire la crescita professionale del collaboratore e a supportarlo nel raggiungimento dei suoi obiettivi. L’obiettivo del coach non è solo quello di ottenere performance migliori nel breve periodo, ma creare professionisti migliori. L’attenzione è quindi focalizzata sulla persona, sia con riguardo alle sue competenze, sia alla sua motivazione.

Descriveremo nel corso della trattazione i principi fondamentali del coaching, cercando di fornire esempi pratici della loro applicazione nella realtà quotidiana.

(Primo principio.) Credere nel potenziale di crescita del collaboratore. La prima cosa che deve fare un manager è verificare la propria disposizione d’animo nei confronti del suo collaboratore. Il coaching può essere efficace solo se siete sinceramente convinti che la persona possa migliorare significativamente la sua performance, e non abbia già raggiunto i suoi limiti (“tanto più di così non può fare, inutile provarci..”). Prendetevi quindi il vostro tempo, analizzate preliminarmente la persona, i suoi comportamenti, i suoi risultati, la sua motivazione. E successivamente analizzate il vostro atteggiamento nei suoi confronti. Verificate se avete abbastanza fiducia, se esiste un pregiudizio di qualsiasi genere, originato dalla nazionalità, dal sesso, perfino dal suo modo di vestire, che possa in qualche modo condizionare il vostro giudizio sulla persona, e mettetelo da parte. La positività è un elemento fondamentale nella pratica del coaching.

(Secondo principio.) Coinvolgere il collaboratore. La maggior parte dei manager utilizza abitualmente uno stile di leadership direttivo. Che non significa necessariamente autoritario, ma come spiega l’etimologia del termine “dirigere”, significa dare una direzione. Quindi la modalità di comunicazione è “da me a te”. Anche con tutte le buone intenzioni il manager spesso pensa, in virtù della sua esperienza, della sua posizione, della sua seniority, di dover impartire al collaboratore le giuste istruzioni, di fornire i migliori suggerimenti e i correttivi adeguati a migliorare. E quindi si limita a fare affermazioni senza far parlare l’altro. Il coaching parte da un presupposto differente. Sostiene che il collaboratore deve assumere un ruolo attivo nel suo percorso di crescita, e possa quindi avere la sua voce in capitolo. Di conseguenza dovrà descrivere i fatti dal suo punto di vista, analizzare le difficoltà, esprimere le sue opinioni, formulare le sue proposte. Seguendo questo approccio si innesca un processo di autoconsapevolezza che rende il collaboratore maggiormente cosciente della sua situazione e delle sue potenzialità. Per esperienza personale abbiamo seguito numerosi casi in cui abbiamo sentito la frase “nessuno mi aveva mai chiesto prima il mio parere”. Da non trascurare quindi il forte effetto motivazionale derivante da questo coinvolgimento diretto.

(Terzo principio.) Utilizzare Le domande. Per ottenere il coinvolgimento del collaboratore si devono utilizzare le domande. Si tratta di un comportamento verbale sottovalutato e sottoutilizzato in ogni contesto della vita aziendale. Nella vendita, nella gestione delle obiezioni e dei reclami, nella gestione della comunicazione conflittuale, e ancor di più nella gestione dei collaboratori. Ovviamente devono essere poste osservando una sequenza logica che diriga il dialogo verso gli obiettivi prefissati. Illustriamo qui di seguito una sequenza tipica.

  • Domanda di carattere generale: “come sta andando la tua attività in questo periodo?”
  • Domanda specifica: “come i trovi in particolare rispetto all’attività xxx…?
  • Domanda di approfondimento. cosa succede esattamente in quell’occasione? Quante volte si verifica?
  • Domanda sulle difficoltà. quali ostacoli incontri di preciso durante il suo svolgimento?
  • Domanda sulla soluzione: come pensi che potresti svolgerla più efficacemente?
  • Domanda sul supporto: che cosa pensi che ti potrebbe servire per migliorare? Come pensi che potrei aiutarti?

Il comportamento contestuale alla formulazione delle domande è l’ascolto attivo. Sia per valorizzare le affermazioni del collaboratore, sia per proseguire nella sequenza delle domande in modo coerente (2)

(Quarto principio.) Concordare un Piano d’azione e responsabilizzare il collaboratore. Molte volte abbiamo assistito a una fase di analisi svolta correttamente, seguita dalla raccomandazione “bene, adesso che hai capito mi raccomando, sei sicuramente in grado di fare meglio!”, oppure anche “dai, ce la puoi fare, abbiamo bisogno di te per raggiungere i nostri obiettivi!”. Al che la persona continua a chiedersi “come”. Diventa quindi fondamentale condividere la sequenza di azioni che si ritiene opportuno intraprendere per ottenere la crescita ipotizzata, individuando chiaramente Obiettivi e KPI (3).

La metodologia del coaching può essere applicata a vari livelli e in differenti situazioni. Ne forniamo qua i tre esempi più frequenti.

Analisi veloce della singola performance. A seguito di una osservazione di un comportamento svolto in maniera non ottimale, si coinvolge il collaboratore subito dopo, quando la memoria è fresca. (4)

Delega. La delega è un processo complesso, che non va confuso con l’assegnazione temporanea di un compito perché in quel momento non si ha il tempo per svolgerlo. Riguarda invece l’assegnazione di una specifica mansione in modo permanente (5). All’interno di questo processo, si inserisce il coaching, che si sostituisce al classico approccio di correzione dell’errore.

Crescita professionale e programmi di medio/lungo periodo. Qua il coaching vede la sua tipica area di applicazione, e si concretizza principalmente nel colloquio di feedback, del quale forniamo qui di seguito la struttura, e alcuni accorgimenti comportamentali da osservare.

L’incontro richiede un’adeguata preparazione. Bisogna riservargli un tempo adeguato e pianificato in anticipo, e non trattato come “hai qualche minuto per fare due chiacchiere..?”

La disposizione d’animo del manager/coach è molto importante. Se si affronta l’incontro caricati da uno stato di tensione anche proveniente da altre questioni l’esito dello stesso può risentirne negativamente-

La location è importante per dare il giusto rilievo all’incontro. È auspicabile un ufficio chiuso dove si possa parlare tranquillamente, senza interruzioni o interferenze di telefonate, notifiche, e-mail. Questi elementi preliminari devono conferire al colloquio la rilevanza che si merita.

L’avvio del colloquio deve avvenire con un’apertura cordiale, dichiarando successivamente che l’obiettivo è l’analisi della situazione attuale, finalizzata alla crescita professionale della persona. È buona norma sottolineare inizialmente un aspetto positivo della persona e/o della sua performance. Questo riconoscimento genera normalmente ascolto da parte dell’interlocutore. Mentre una critica iniziale può generare un atteggiamento di chiusura.

A prescindere dai contenuti, tutti gli elementi della comunicazione interpersonale rivestono una loro importanza. Dal tono di voce, alle espressioni facciali, alla postura, alla posizione reciproca: stare di fianco alla persona è meglio che starle di fronte, specialmente se ci sono dati o documenti da mostrare e condividere.

A quel punto può iniziare il colloquio vero e proprio, che si svolge attraverso la sequenza di domande che abbiamo esposto in precedenza. E terminare con la definizione del piano d’azione (obiettivi e KPI).

È molto importante che la discussione si svolga osservando alcuni principi fondamentali:

  • L’analisi deve essere svolta sulla base di eventi e riscontri oggettivi, possibilmente quantificabili, e non si deve basare su impressioni, pregiudizi, valutazioni soggettive. È fondamentale separare la descrizione dei fatti dall’opinione sugli stessi.
  • Qualsiasi forma di critica va diretta agli argomenti e alla performance, e non alla persona. Ad esempio: “questa attività può essere svolta meglio” e non “hai commesso un errore”.

L’incontro di feedback si conclude con l’accordo sui passi successivi e la tempificazione degli incontri di follow-up volti a monitorare i miglioramenti della persona, ed eventualmente ad inserire dei correttivi

Quando parliamo di coaching quindi non ci riferiamo a un generico atteggiamento partecipativo e di incoraggiamento, ma ad un processo articolato, che si regge su principi solidi e deve essere applicato con sistematicità, nel corso dei mesi, e talvolta degli anni. Se applicato correttamente fornisce spesso risultati sorprendenti, si possono ottenere sostanziali cambiamenti non solo nella performance ma anche nell’atteggiamento dei collaboratori, ripagando ampiamente dell’impegno profuso.

Note.

(1). Mentore, chi era costui? Nella mitologia greca Mentore era un amico e consigliere di Ulisse, che si prese cura della crescita e dell’istruzione del figlio Telemaco mentre l’eroe era impegnato nella guerra di Troia. Sempre secondo la mitologia dietro a Mentore si celava Atena, dea della saggezza.]

(2). L’ascolto attivo è una pratica sistematicamente utile, in qualsiasi attività di relazione. Non significa solo ascoltare attentamente l’interlocutore, ma anche e fornire evidenza con il linguaggio del corpo (contatto visivo, cenni di assenso), ma anche con precisi comportamenti verbali: Richieste di chiarimento, Verifica della comprensione, Riassunto di quanto detto.]

(3). Gli obiettivi SMART e KPI. La più diffusa teoria sulla corretta definizione degli obiettivi ci dice che un obiettivo ben formato deve essere Specifico (ben descritto in ogni sua caratteristica), Misurabile, Raggiungibile (Achievable in Inglese), Realistico, Temporizzato.
I KPI (key performance indicators) misurano le azioni che si ritengono necessarie per raggiungere un obiettivo. Esempio: un venditore ha come obiettivo di incrementare il suo fatturato del 10% entro il 30 giugno, ripartito per il 7% su clienti nuovi e 3% su clienti esistenti. I KPI con i quali sarà misurato saranno il numero visite, il rapporto tra trattative e chiusure, il numero di inserimenti nel CRM]

(4). La tecnica del “Sandwich appraisal” si applica nel seguente modo: Subito dopo aver osservato una prestazione (es: una vendita al Cliente):  1. Dire prima qualcosa di positivo, usando i comportamenti osservati, 2. Rinforzare i comportamenti positivi osservati, 3. Condividere i comportamenti da migliorare 4. Finire la conversazione fissando un obiettivo di miglioramento].

(5). Il processo della Delega. Per essere efficace la delega deve seguire un processo strutturato, che comprende le seguenti fasi principali: Definizione chiara del compito – individuazione della persona adatta – assegnazione. Chiara, senza equivoci e motivata – data di completamento – standard di performance richiesto – il flusso di comunicazione]


Smartworking

Una soluzione forzata o una opportunità di miglioramento?

Le recenti vicende legate all’emergenza Covid hanno portato alla ribalta l’adozione dello Smartworking, per consentire ai dipendenti di lavorare da casa (o comunque senza recarsi in ufficio). Alcune aziende lo avevano già implementato in passato, altre si sono trovate costrette ad adottarlo a causa delle misure restrittive, spesso con diffidenza e in mezzo a molte resistenze.

Analizzeremo quindi in questo articolo i vari aspetti connessi con questa tematica, suggerendo di fare un’attenta riflessione su questa esperienza, e verificare quali vantaggi questa formula possa portare alle organizzazioni e ai loro dipendenti.

Prima di iniziare riteniamo opportuno fare una premessa e una considerazione.

La prima è una precisazione di carattere storico: lo smartworking, senza che si chiamasse così, era largamente praticato prima della rivoluzione industriale. Le attività, sia agricole, sia artigianali, sia professionali venivano svolte contestualmente alla propria residenza. Quindi niente di nuovo sotto il sole. La nascita delle industrie ha portato le persone ad allontanarsi dalle proprie dimore per avvicinarsi alle fabbriche e ai mezzi di produzione.

Ma se questo resta tuttora un vincolo per le attività legate agli impianti produttivi e alle catene di montaggio, per una serie di attività impiegatizie invece questo vincolo non esiste più, e grazie a internet e agli strumenti per lavorare in mobilità sia il manager sia il collaboratore possono operare a distanza rispetto alla sede ufficiale di lavoro.

Resta indubbio che ci siano ruoli che più facilmente si prestano a questa modalità in modo totale, e altri in modo più ristretto. Ma l’argomento va affrontato senza pregiudizi.

La considerazione riguarda il fatto che, se gestita in modo adeguato, si tratta di una situazione rara da cui due parti tradizionalmente con interessi contrapposti (aziende e dipendenti) possono reciprocamente trarre vantaggio. Come si usa dire, una relazione “win-win”.

Partiamo quindi con una visione dello Smartworking che riteniamo significativa

“SmartWorking significa ripensare il lavoro in un’ottica più intelligente, mettere in discussione i tradizionali

vincoli legati a luogo e orario lasciando alle persone maggiore autonomia nel definire le modalità di lavoro

a fronte di una loro maggiore responsabilizzazione sui risultati. Autonomia, ma anche flessibilità, responsabilizzazione, valorizzazione dei talenti e fiducia diventano i principi chiave di questo nuovo approccio.” (Fonte: «Una Bussola per il Viaggio» in «Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano» – HBR – 2015)

Ci discostiamo quindi dal più limitante concetto di Telelavoro, che significa trasferire fisicamente una postazione di lavoro, mantenendo tutti i presupposti e i vincoli del lavoro svolto in ufficio (orari, modalità di lavoro e di comunicazione, ecc.)

Prendendo quindi in considerazione lo Smartworking nel suo senso più ampio, passiamo a individuare le aree che vengono coinvolte nella sua implementazione: la cultura aziendale, gli spazi di lavoro, la tecnologia, e i sistemi HR

La base per comprendere se e quanto un’organizzazione sia già naturalmente predisposta allo smartworking, o se esistono fattori che ne ostacoleranno l’adozione, è l’analisi della cultura aziendale.

Non basta creare procedure e regolamenti e creare nuove forme contrattuali. Come ha saggiamente affermato Peter Drucker, “la cultura aziendale si mangia la strategia a colazione”.

Se quindi l’azienda possiede una cultura avversa e resistente al cambiamento, con una leadership fortemente gerarchizzata e orientata al controllo, e una comunicazione fortemente unidirezionale, senza atteggiamento alla condivisione della conoscenza, sicuramente l’adozione dello smartworking risulterà molto difficile. L’apertura al cambiamento, la flessibilità, la comunicazione aperta, l’orientamento ai risultati sono condizioni necessarie, anche se non sufficienti, perché questa pratica possa attecchire efficacemente in azienda.

Spazi di lavoro e tecnologia sono spesso strettamente connessi e condizionano sia la motivazione sia la performance dello smartworker. Gli effetti si registrano sia sulla salute fisica del lavoratore.

I sistemi HR devono ovviamente essere adeguati in termini modalità contrattuali, flessibilità di orari, retribuzioni, ferie e permessi, postazioni di lavoro e altro per adeguarsi alle nuove e  differenti operatività.

Andiamo ora a vedere quali sono le implicazioni sulle tre categorie di attori coinvolti in questo processo: l’azienda, i manager e i loro collaboratori, tenendo in considerazione sia fattori logistici e organizzativi, sia fattori di carattere umano e relazionale

Il collaboratore smartworker. Sicuramente questa modalità presenta indubbi vantaggi per il collaboratore, apprezzati da molti: si azzerano tempi costi di trasferimento, ne derivano minore stress e stanchezza fisica, e maggiore libertà di movimento. Dall’altra parte però possono sorgere numerose problematiche.

Nella fattispecie: isolamento e minore socialità; perdita dello spazio fisico di riferimento; difficoltà nella gestione del tempo e talvolta nel lavorare in un contesto casalingo non favorevole; difficoltà di interazione con l’azienda; problematiche connesse con la tecnologia; difficoltà di automisurazione; maggiore sedentarietà, rischio di burnout. Si tratta di problematiche reali, che hanno portato numerosi dipendenti a chiedere di essere reintegrati al più presto nel contesto fisico aziendale, nonostante i vantaggi di cui stavano godendo.

Il Manager. Per gestire e risolvere queste problematiche il manager ha due tipi di compito / deve affrontare due tipi di sfida.

Da una parte deve adeguarsi alla perdita di controllo connessa con l’assenza fisica del collaboratore. Questo avviene attraverso un processo di fiducia, responsabilizzazione e utilizzo della delega che spesso non risulta spontaneo e automatico ed è condizionato dalla cultura aziendale (v. sopra). È necessario abbandonare il paradigma della reperibilità in ogni momento, e del “dove sei adesso…?”

Dall’altra paradossalmente deve rappresentare una guida e un punto di riferimento per i suoi, per ovviare al senso di distacco e di smarrimento. Deve quindi impegnarsi a rivedere e modificare una serie di politiche e di comportamenti per andare incontro alle nuove esigenze dei suoi collaboratori.

Nella fattispecie: fornire obiettivi chiari e scegliere di valutare per risultati e performance, attribuendo minore peso agli aspetti comportamentali come il rispetto degli orari; fissare chiare regole di comunicazione e di circolazione delle informazioni in rete, favorendo lo scambio trasversale delle informazioni e abbandonando lo stile di comunicazione unidirezionale; mantenere viva la comunicazione interpersonale, creando anche momenti conviviali in ambiente virtuale, coffee talks, che attenuino la sensazione di distacco e tengano vivo il senso di appartenenza all’azienda; porre maggiore attenzione al bilanciamento vita/lavoro, evitando ad esempio comunicazioni serali o nei giorni festivi.

L’azienda. Ci riferiamo qua alla proprietà e al top management. Sarà opportuno dichiarare e mantenere un atteggiamento favorevole allo smartworking, sposando la filosofia della flessibilità. Si può concedere alle persone di aderire su base volontaria, si possono attuare formule miste, con parziale presenza in azienda, cercando di trovare, anche attraverso un periodo di sperimentazione, la modalità ideale. Sarà inoltre necessario porre maggiore attenzione alle tematiche della tutela della privacy e della sicurezza delle informazioni. Sia adeguando i sistemi informativi, sia fornendo formazione a tutti i dipendenti.

In conclusione, risulta chiaro che lo smartworking può generare indubbi vantaggi sia per l’azienda, sia per i dipendenti, purché venga affrontato con un approccio sistemico che coinvolga tutte le funzioni aziendali ai vari livelli, e ne valuti attentamente tutte le implicazioni e ripercussioni. Grandi aziende come Vodafone, Barilla, ABB, American Express lo stanno adottando da tempo con profitto e soddisfazione generale.


Problem solving e decision making

La più quotidiana fra le attività di un manager e di un imprenditore.

Si parla molto, e in modo particolare in questo ultimo tormentato periodo di capacità di Problem Solving. La chiedono i selezionatori, la dichiarano i professionisti nel loro curriculum.

La crescente velocità del cambiamento, aumentata drammaticamente dalla recente esperienza del Covid, mette le aziende e i loro manager di fronte a continue sfide, che devono essere affrontate e gestite efficacemente e in tempi rapidi.

Ma cosa significa veramente “Problem Solving”? In questo articolo ci proponiamo di fornire un quadro di riferimento su questa attività, e una metodologia per la sua efficace esecuzione.

Sgombriamo subito il campo da un possibile malinteso: problem solving non significa “avere intuito” o “possedere la bacchetta magica” per trovare immediatamente soluzione ad un problema.

Qui ci riferiamo a una metodologia strutturata, applicata all’interno di una organizzazione complessa come un’azienda, che prevede una sequenza di fasi, e l’utilizzo di competenze differenti, anche lontane fra loro, nello specifico:

  • Capacità di analisi
  • Capacità di giudizio
  • Capacità logiche/di ragionamento
  • Capacità creative
  • Capacità organizzative/decisionali
  • Capacità di comunicazione

Partiamo quindi con una definizione generale:

Un problema può essere considerato un GAP, cioè una distanza da colmare fra dove siamo (stato presente) e dove vorremmo essere (stato desiderato).

Il gap si può manifestare in qualsiasi ambito. Può essere un problema di produzione (la qualità del prodotto non è soddisfacente, o il ciclo produttivo è lento); di comunicazione sia interna (informazioni che non pervengono ai reparti interessati), sia esterna (l’immagine dell’azienda non è rappresenta i suoi valori); organizzativo (le persone non sono responsabilizzate sulle loro mansioni, ci sono conflitti fra funzioni o fra persone); di gestione dei clienti (perdita di clienti attivi nel medio/lungo periodo); e molto altro.

Per colmare questo Gap ottenendo la massima efficacia delle nostre azioni è opportuno evitare improvvisazioni, meglio osservare una sequenza. Altrimenti si rischia di finire fuori strada, agire per tentativi e approssimazioni, o prendere decisioni avventate. Qui di seguito illustriamo un utile schema di riferimento.

  • Individuazione del problema. È famosa la frase di Albert Einstein che disse: “Se avessi solamente un’ora per salvare il mondo, passerei 55 minuti a definire bene il problema e 5 a trovare la soluzione”    L’analisi preliminare costituisce il presupposto fondamentale di tutto il processo. Spesso per la fretta di risolvere, o per la presunzione di comprendere tutto al volo ci accontentiamo di cogliere alcuni segnali e dedurre quale sia il problema. Rischiando così di confondere il sintomo con la causa. Un’azienda aveva riscontrato una serie di reclami presso il customer care per il ritardo nella consegna degli ordini, o addirittura la mancata consegna degli stessi. L’attenzione si era concentrata inizialmente sui reparti della logistica (magazzino e spedizioni) ipotizzando inefficienze in quella funzione. Un’analisi più approfondita aveva messo in luce che il reparto finanziario aveva istituito regole più restrittive per la gestione del credito, che comportavano procedure di controllo dei pagamenti più rigide e lente, e talvolta il blocco degli ordini. Tali regole erano state inoltre introdotte senza informare in modo chiaro e tempestivo le altre funzioni, e soprattutto la clientela, che legittimamente affollava il customer care con le sue proteste.
  • Fissazione dell’obiettivo. Risolvere un problema non significa semplicemente colmare il gap fra stato esistente e stato desiderato, ma anche fissare con chiarezza le caratteristiche dell’obiettivo che vogliamo raggiungere. Che non sia solamente un proposito. Se ci proponiamo di aumentare l’efficienza del reparto di assistenza tecnica, o di incrementare la nostra penetrazione di mercato stiamo solo enunciando dei propositi, che non supportano la ricerca della soluzione più adatta. Il metodo SMART ci aiuta nella definizione dei nostri obiettivi.
  • Individuazione delle alternative. Questa è la fase in cui è necessario cambiare forma di pensiero: passare dal pensiero convergente al pensiero divergente. Spesso l’approccio istintivo è quello di basarsi sulle esperienze passate, utilizzando metodi consolidati, per minimizzare il rischio e velocizzare il processo. In tal modo ci precludiamo la possibilità di considerare qualche soluzione creativa. Tipico ad esempio in un momento di flessione delle vendite, cercare di rimediare e colmare il gap stimolando la rete commerciale e richiedendo un incremento della produttività: aumento del numero contatti, ottimizzazione del giro visite, ecc. Questo è invece il momento di aprirsi all’esterno, cogliere i segnali ambientali, analizzare il comportamento della concorrenza, e non porre limiti alle proposte anche più fantasiose. La tecnica del Brainstorming può essere di grande aiuto per svolgere questa fase. La soluzione migliore nel caso precedente potrebbe essere ad esempio ben differente, chiedendo ai venditori di aumentare il tempo trascorso in ufficio ad analizzare il loro portafoglio clienti, per ottimizzare la loro attività sul territorio e concentrarsi maggiormente sui clienti a maggior valore aggiunto.
  • Selezione delle alternative. Se sono state individuate più soluzioni praticabili, la selezione di quella migliore passa attraverso una serie di valutazioni che risentiranno delle priorità aziendali. Non si tratta quindi solo di considerare l’aspetto economico, ma anche l’incidenza di molti altri fattori. A seconda dei casi e della decisione da prendere si devono valutare i tempi di realizzazione, gli effetti sui carichi di lavoro, sul clima aziendale, l’impatto ambientale, il giudizio di interlocutori esterni all’azienda, sia vicini (clienti e fornitori), sia più esterni (organizzazioni sindacali, mercati finanziari, comunità in rete…), l’impatto sull’immagine aziendale, e altro. Non esiste oggettivamente una decisione migliore in assoluto, ma dipenderà dal rispetto dei valori e della visione della proprietà e del management.
  • Realizzazione della soluzione. Il problema non si può dire risolto finché la soluzione selezionata non viene implementata e ha dato prova della sua efficacia. Altrimenti si rischia di avere fatto solo un esercizio teorico. Una volta individuata quindi la soluzione ritenuta migliore è fondamentale determinare le modalità operative e assegnare con precisione le responsabilità. Qui la regola delle 3W (who, what, when: chi fa che cosa, quando) ci aiuta a non trascurare nessun effetto dell’implementazione. Senza una accurata definizione dei compiti e delle fasi dell’implementazione si rischia di vanificare l’impegno profuso nelle attività precedenti.
  • Comunicazione e formazione interna. Per assicurare la comprensione e l’accettazione della nuova soluzione è importante che i cambiamenti introdotti vengano resi noti all’interno dell’organizzazione, e anche all’esterno a tutte le parti interessate. E venga fornita l’eventuale formazione necessaria agli esecutori materiali. Questo punto purtroppo rappresenta spesso uno scoglio contro il quale si arenano alcune buone soluzioni. Ci si deve assicurare che tutte le parti coinvolte siano in grado di svolgere efficacemente il loro ruolo e fornire il loro contributo. L’esempio portato sopra a proposito delle decisioni del reparto finanziario è calzante anche in questo ambito. La soluzione adottata per migliorare la liquidità dell’azienda non era stata comunicata adeguatamente e questo ha causato più problemi che vantaggi all’azienda.
  • Monitoraggio, consolidamento e Revisione. La risoluzione di un problema implica dei cambiamenti all’interno dell’organizzazione, che possono avere ripercussioni al suo interno, e generare eventuali resistenze. Che magari non si manifestano immediatamente ma anche dopo un certo periodo di tempo, talvolta anche mesi. Per questo motivo non ci si deve accontentare che la soluzione funzioni, ma la stessa va sottoposta ad un certo periodo di “rodaggio”, durante il quale deve essere sostenuta, e sottoposta anche a processi di eventuale revisione per ottimizzarne alcuni aspetti.

In conclusione ci preme sottolineare che la sequenza indicata non deve spaventare, o far pensare che si tratti di un processo pesante e pieno di lungaggini. Molte delle fasi indicate possono essere svolte nel corso di brevi riunioni, o addirittura svolte da una singola persona. L’importante è che non vengano trascurate, e che esista un metodo strutturato per affrontare qualsiasi tipo di problema, e un percorso che porti a realizzare la soluzione più adeguata.


Change management.

“Qualunque cosa vi abbia portato
ad essere dove siete ora,
non è più sufficiente
a garantire che vi rimaniate”

Il tema del cambiamento è sempre più attuale. La sempre più rapida evoluzione delle tecnologie e delle dinamiche di mercato impone alle aziende di essere continuamente pronte ad inserire elementi nuovi e innovativi all’interno delle loro organizzazioni. Siamo sempre più immersi in un mondo VUCA.

Tuttavia, la maggior parte dei cambiamenti, sia in Italia sia all’estero falliscono o riescono parzialmente (1), come vedremo, per ragioni dovute all’inadeguatezza della loro gestione.

Il cambiamento crea resistenze, quindi non avviene spontaneamente. Inoltre l’autorità non è una leva che può funzionare in assenza di credibilità. Occorre adottare un approccio che comprenda i saperi di più materie: economia, sociologia, psicologia, management. La convinzione che sia sufficiente dire “da domani si cambia” non è più valida.

Molti studiosi hanno analizzato le dinamiche del cambiamento in azienda, e hanno individuato una serie di azioni per renderlo effettivo. L’obiettivo di questo articolo è fornire una sintetica panoramica di queste azioni.

Prima di descriverle forniamo una definizione generale.

Per cambiamento si intende un processo attraverso il quale un’organizzazione evolve da uno stato A in cui si trova a uno stato B, in cui l’organizzazione aspira a trovarsi al termine del progetto.

L’obiettivo della gestione del cambiamento è quello di modificare, almeno parzialmente, conoscenze, competenze, comportamenti dello stato A per costruirne di nuovi adeguati a gestire efficacemente lo stato B.

Il cambiamento può essere una semplice risposta adattiva allo scenario, oppure un progetto più pianificato. Può riguardare quindi una intera ristrutturazione aziendale, l’introduzione di una nuova linea produttiva, la riorganizzazione di una forza commerciale, ecc…

Esistono alcuni elementi comuni a tutti questi processi di cambiamento, che possono essere gestiti efficacemente dal management aziendale.

Cogliere i segnali esterni. È fondamentale saper individuare e analizzare le dinamiche ambientali e di settore, comprendere velocemente la necessità di introdurre elementi correttivi o innovativi. Spesso una posizione di mercato consolidata, l’inerzia, la superficialità impediscono di cogliere le minacce (e le opportunità) provenienti dall’esterno. La storia è ricca di esempi di aziende, grandi e piccole, che sono naufragate per non avere saputo cogliere l’importanza di avvenimenti quali ad esempio l’avvento della fotografia digitale, di internet, dell’e-commerce o di nuovi competitor. A partire da Kodak, a Nokia, fino a piccole e medie aziende del tessuto industriale italiano. Consigliamo a tutti la lettura di un illuminante breve testo di Spencer Johnson. (2)

Trarre giovamento dalle esperienze precedenti. Se escludiamo le startup, qualsiasi azienda ha affrontato nel passato processi di cambiamento di vario genere. Sfortunatamente spesso le aziende stesse hanno la memoria corta, e non analizzano con cura le best practice da capitalizzare e gli errori da non ripetere.

Coinvolgimento della leadership aziendale Una volta compresa la necessità di introdurre un cambiamento, è fondamentale che il top management sia presente con alcune azioni irrinunciabili:

  • fornendo per primo l’esempio, mostrando di essere presente e coinvolto e non estraniandosi dal processo dopo averlo avviato;
  • rimuovendo gli ostacoli che si frappongono all’applicazione di nuovi metodi, che possono essere di carattere tecnologico, burocratico, amministrativo. Talvolta i processi si arenano o rallentano per motivi banali: un’autorizzazione mancante, un server lento, una procedura inadeguata.
  • fornendo gli strumenti per una corretta applicazione delle nuove pratiche. Tante volte durante i nostri interventi in azienda raccogliamo le lamentele di chi ha una nuova mansione o deve utilizzare una nuova metodologia ma non viene messo nelle condizioni appropriate per svolgerla. Per mancanza di autorità o di adeguata formazione.

La comunicazione. Uno degli elementi assolutamente cruciali che favoriscono od ostacolano il cambiamento è il processo interno di trasmissione delle informazioni, che si può declinare in più fasi:

  • Il management deve spiegare motivi e finalità del cambiamento, fornire ragioni e motivazioni valide. Creare quello che John Kotter definisce “un senso di urgenza” (3), che generi un incentivo all’azione.
  • Le persone coinvolte materialmente nel processo devono ricevere istruzioni precise sulle modalità di esecuzione, e nel caso una formazione adeguata, per lo svolgimento dei nuovi compiti. E il resto della struttura deve ricevere le informazioni necessarie a recepire correttamente le novità. Si eviti la classica frase “non siamo stati informati”.
  • Il management non deve mancare di segnalare ed encomiare prontamente i casi di successo e di applicazione positiva del cambiamento in corso.

Il coinvolgimento delle persone giuste. Quando si introducono elementi innovativi in una struttura numerosa è molto importante scegliere le prime persone da coinvolgere nel processo. All’interno dell’organizzazione esistono sempre individui più favorevoli al cambiamento, e con una spiccata attitudine a comunicare e coinvolgere gli altri. Sono definite tecnicamente da Gladwell “Connectors” (4), e possono diventare i veri facilitatori, capaci di coinvolgere e trascinare il resto dell’organizzazione grazie al loro esempio e alla loro proattività, rafforzando i comportamenti positivi con la loro credibilità.

  • Fautori del cambiamento o change advocates, coloro che introducono e danno avvio al cambiamento
  • Sponsor, ovvero persone o gruppi che hanno il potere reale di influenzare le risorse umane e finanziarie
  • Agenti del cambiamento o change agents, ossia coloro che devono attuare il cambiamento e operare come facilitatori.
  • Destinatari del cambiamento (change recipients) sono tutti quelli che devono modificare ruoli, comportamenti, competenze, come esito finale del processo di cambiamento.]

Ragionare in modo sistemico. Spesso i cambiamenti in azienda vengono considerati circoscritti a una funzione, a un ambito ristretto, e non si considera l’organizzazione come un tutto (un sistema) le cui parti sono strettamente interconnesse.

È altresì fondamentale la sensibilità nel comprendere le differenti tempistiche di cambiamento e le asimmetrie temporali delle varie parti dell’organizzazione. In questi processi si chiede di modificare comportamenti a molti individui diversi e differenti, e naturalmente i tempi di risposta individuali possono essere molto diversi.

 Il pensiero sistemico ci viene in aiuto, soprattutto con due nozioni fondamentali.

  • Da una parte, si devono considerare tutti gli effetti e le ripercussioni che un cambiamento in una determinata area aziendale può avere su tutte le altre aree. Ad esempio, l’introduzione di un metodo più stringente per il controllo qualità può causare un impatto sulla logistica, ritardi nelle consegne, un sovraccarico del customer care, la necessità di una comunicazione preventiva sia alle vendite sia alle aziende clienti.
  • Dall’altra, si deve tenere conto che una qualsiasi variazione all’interno di un sistema ha dei ritardi nel produrre gli effetti desiderati, che vanno calcolati come fisiologici, e non come inefficienze. Ad esempio, riorganizzare una forza vendite da una competenza territoriale a una per linea di prodotto può comportare ridefinizioni nella contrattualistica, nel CRM, nei sistemi informativi, nell’amministrazione, che possono comportare mesi di attesa prima che il cambiamento sia a regime

Il fattore umano e l’intelligenza emotiva. Come abbiamo già sottolineato, l’implementazione di un cambiamento genera resistenze, e necessita di adeguate motivazioni. La resistenza è la forma che si oppone alla rottura dell’equilibrio preesistente. E allo stress che deriva dal minore controllo sulla nuova situazione. L’individuo non riesce a trovare un equilibrio accettabile, e può provare talvolta emozioni negative, alterazioni della salute personale e comportamenti organizzativi disfunzionali. Non a caso i modelli anglosassoni invitano ad affrontare il cambiamento incentivando la fiducia, il teamwork e lo spirito di appartenenza. Secondo Frigelli (5) nel cambiamento è necessario saper comprendere e condividere due codici: un codice materno per capire quali sono i bisogni delle persone, gestirli, ma essere aderenti, necessariamente, a un codice paterno, dove produttività, redditività, qualità, sono elementi imprescindibili della prestazione dell’impresa. Spesso il management è portato a ragionare per efficienza dei processi, e a sottovalutare il fattore umano nella sua interezza.

Il consolidamento. Una volta seguiti correttamente tutti i passi per implementare il cambiamento non si può allentare la tensione. Le abitudini hanno una grande forza, e il rischio di tornare a pratiche e comportamenti precedenti abbandonando la nuova via intrapresa è sempre presente. Una costante azione di monitoraggio con supporto e coaching si rende necessaria perché il cambiamento entri nella routine quotidiana senza generare effetti di ritorno.

L’applicazione dei principi sopra elencati non garantisce la certezza di una efficace implementazione di un processo di cambiamento, ma sicuramente costituisce la base per minimizzare le probabilità di insuccesso. Raccomandiamo quindi ai manager di fermarsi e utilizzarla come checklist per non vedere vanificati successivamente i loro sforzi.

  1. Assochange – Osservatorio 2018 change management https://www.aidp.it/aidp_be/ALLEGATI/DOC/0/Osservatorio%20ASSOCHANGE_EXECUTIVE%20REPORT_18.pdf
  2. Spencer Johnson – Chi ha spostato il mio formaggio? – Sperling & Kupfer
  3. John. P. Kotter – Accelerate – Harvard Business Review Press. Pag. 81
  4. Malcom Gladwell – the tipping point – Little, Brown & Co. Pag 32
  5. Umberto Frigelli – Guidare il cambiamento organizzativo – FS Edizioni


Venditore on line? No grazie…


Sono un consulente aziendale. Ma sono stato anche un venditore, e scrivo ora assumendo questo secondo punto di vista, in modo informale, ma sicuramente autentico.
In questi mesi si è diffuso il concetto di smartworking. Gli eventi hanno mostrato che tante trasferte e tante visite possono essere evitate, e gestite tranquillamente on line, con notevoli risparmi di tempo e di costi.
Ma questo non elimina forse alcuni elementi per cui spesso si sceglie e si ama l’attività di venditore?
Per molti questo mestiere è legato al dinamismo, al viaggio, al contatto personale. Il venditore ama relazionarsi con altre persone. Il rapporto con il cliente è il suo principale punto di forza.
Ama fermarsi in un bar a fare telefonate ai clienti fra una visita e l’altra. Quando viaggia ha i suoi riferimenti, le sue trattorie, gli alberghi dove ama soggiornare. Le persone da incontrare nei momenti extralavorativi.
Lavorare dietro un monitor va sicuramente a frustrare tutto questo. E non dobbiamo dimenticare che un lavoro piace anche (talvolta principalmente) per gli elementi di contorno che offre.
Se quindi andremo verso questa strada, si dovrà sicuramente anche ripensare al profilo ideale per ricoprire il ruolo secondo questa nuova modalità.


Il feedback, questo sconosciuto.

 

Nonostante l’importanza del feedback venga sottolineata durante i corsi, nei testi e negli articoli, questa pratica viene frequentemente disattesa.
La classica frase “le farò/faremo sapere” è diventata spesso un modo diplomatico per dire “scordati di essere ricontattato”.
Venditori che restano senza una risposta dopo aver presentato un’offerta.
Clienti in attesa di una chiamata dal loro fornitore.
Candidati che aspettano un responso dopo avere sostenuto un colloquio.
Collaboratori che non ricevono riscontro dai loro capi se non per vedere sottolineato un loro errore.
Colleghi che non ricevono le informazioni richieste senza una valida motivazione.
Non stiamo richiamando al rispetto o alla buona educazione. Stiamo sottolineando comportamenti disfunzionali al mantenimento delle relazioni interpersonali.
I principi dell’intelligenza emotiva e della comunicazione ci spiegano chiaramente che il silenzio a fronte dell’aspettativa di un riscontro può essere considerato un comportamento ostile. E generare sentimenti di frustrazione, svalutazione, fino ad arrivare al risentimento e al rancore.
In ogni caso, la mancanza di feedback costituisce un ostacolo alla creazione di una relazione e una causa del suo peggioramento anche nel medio/lungo periodo.


Il crescente peso delle competenze trasversali.

Gli eventi recenti richiedono al management aziendale un set di competenze ampliato rispetto al passato.

In particolare ci sembra che sia indispensabile oggi per un manager:

– Sviluppare flessibilità. L’estrema volatilità e imprevedibilità degli scenari attuali (il cosiddetto mondo VUCA) fa sì che alla forte focalizzazione verso un obiettivo sia privilegiata la capacità di prefigurare scenari differenti, e ipotizzare piani di azione alternativi non troppo strutturati, ma compatibili con un certo grado di approssimazione.

– Utilizzare maggiormente il Pensiero Divergente. Non ci si può più affidare a schemi consolidati, validi nel passato, ma ci si deve aprire a soluzioni creative.

– Utilizzare maggiormente, e in modo appropriato l’Intelligenza Emotiva. Il clima attuale genera nelle persone uno stato di ansia, incertezza, forte suscettibilità, e la necessità di avere una guida di riferimento affidabile da parte del management. Che si deve tradurre in maggiore presenza, autenticità, comunicazione personale e non lasciata a comunicati, mail e freddi proclami.

L’utilizzo appropriato di queste competenze aumenterà la probabilità di gestire questa nuova situazione, che sicuramente farà sentire i suoi effetti nel medio/lungo periodo.