Emozioni. Una variabile tanto cruciale quanto trascurata.

 

A distanza di oltre 20 dalla pubblicazione di Working with Emotional intelligence di Goleman la mia sensazione è che il suo messaggio resti ancora spesso inascoltato.

C’è chi considera l’utilizzo e l’esternazione delle emozioni come un segnale di debolezza, chi pensa che il tutto si riduca a una bella pacca sulla spalla. Chi ne nega l’importanza.

Eppure l’approccio di Goleman non era assolutamente votato al buonismo e al richiamo ad essere compassionevoli. Ma al contrario, sulla base delle ricerche della psicologia e della neurologia, suffragate da analisi statistiche, dimostrava come l’utilizzo della intelligenza emotiva avesse una evidente correlazione positiva con la performance delle persone. E per inciso, i risultati delle ricerche degli ultimi venti anni nel campo delle scienze cognitive stanno sempre più rafforzando il fondamento scientifico delle sue affermazioni.

Vorrei mettere in evidenza in questo articolo due aspetti in particolare, dei quali ho avuto numerose volte evidenza durante la mia vita professionale.

Il primo, riguarda il fatto che le emozioni trovano progressivamente meno spazio man mano che si sale nella scala gerarchica. Sembra che l’assunzione di posizioni di potere abbia una correlazione negativa con l’empatia e l’esternazione delle emozioni. Posso confermare di avere visto store manager e capi reparto molto più capaci di utilizzare e gestire la sfera emotiva con i loro collaboratori rispetto a direttori di funzione e direttori centrali. Questi ultimi ritengono mediamente che il rapporto debba essere asettico e spersonalizzato. Si vive di egoismi, protagonismi, scarsa comprensione dell’altro. I rapporti sono esclusivamente orientati al business e alla performance. Prevale la convinzione (errata) che in certe posizioni non si debba sprecare tempo a curarsi dello stato emotivo del personale.

Il secondo aspetto, strettamente legato, riguarda la convinzione che i fatti personali debbano essere sistematicamente tenuti al di fuori del contesto lavorativo.

Ora, questo può essere vero nelle situazioni in cui l’individuo rappresenta l’azienda verso l’esterno, con clienti, fornitori, e altri elementi dell’ecosistema aziendale, con i quali è opportuno mantenere un atteggiamento “di facciata”.

La situazione cambia a mio parere nei rapporti interni fra capi e collaboratori. A fronte ad esempio di un improvviso e insolito calo di performance, e di un atteggiamento esteriore che manifesta disagio, un capo può cercare di  analizzare la situazione assieme al collaboratore, mostrando disponibilità all’ascolto senza essere però invasivo. E se il collaboratore desidera esternare anche fatti personali, mostrare comprensione può modificare radicalmente sia la performance del collaboratore stesso, sia il suo senso di appartenenza ad una azienda da cui si sente ascoltato, sia il rapporto personale con il suo responsabile. Purtroppo spesso la frase canonica è invece: “I fatti personali vanno tenuti fuori dall’azienda”, come se le persone fossero dei robot ai quali si cambia un programma di funzionamento a seconda del contesto. Ripeto nuovamente, non si tratta di un invito alla filantropia, non si tratta di fare gli psicologi o gli assistenti sociali, si tratta di prendere atto di come ottenere il meglio dai propri collaboratori, e agire comportamenti coerenti con questo fine.

Per quanto gli esempi personali non costituiscano ovviamente campioni rappresentativi della realtà, desidero comunque citarne due relativi al mio passato professionale.

Il miglior capo che abbia mai avuto era un Country Manager in una multinazionale, mentre io ricoprivo la posizione di key account. Non aveva una solidissima preparazione teorica, ma grande sensibilità commerciale. E soprattutto era sempre in prima linea, pronto ad ascoltare i suoi uomini, a supportarli, a scusare un errore e a difenderli a spada tratta con il top management. E noi eravamo pronti a gettare il cuore oltre l’ostacolo quando ci chiedeva uno sforzo extra. Non perché lo chiedeva l’azienda, ma perché lo chiedeva LUI.

Uno dei peggiori capi che io abbia avuto era un Sales Director. Anche in quell’occasione era una multinazionale, e io ero sempre un key account. In una particolare circostanza ho commesso un errore abbastanza rilevante. Ho cercato di spiegargli che stavo attraversando un periodo difficile della mia vita, con gravi problemi familiari. E mi sono sentito rispondere (soprattutto la sua metacomunicazione ha fatto la sua parte) che i miei fatti personali non lo riguardavano. In quel preciso istante io ho deciso che mi dovevo allontanare da lui, anche a costo di dimettermi. Poi lui se ne andò subito dopo, e prima di me, ma questa è un’altra storia…

Informazioni su Davide Medri

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