Questo articolo si rivolge a chi gestisce direttamente dei collaboratori, ma si può applicare anche ad altri contesti della nostra vita personale.
Sono spinto a scriverlo perché, come tanti altri che staranno leggendo, non avuto mai nella mia vita professionale un Coach. Una persona che fosse sinceramente interessata a me nell’individuare i miei obiettivi, e supportarmi nel creare un piano di crescita volto a raggiungerli. Nel bene e nel male, tutto quello che ho imparato e conseguito è stato frutto della mia iniziativa personale e della mia applicazione. E mi sono reso conto che se avessi avuto una guida probabilmente avrei potuto raggiungere certi risultati anche venti anni prima.
Sembra che interessarsi della persona, della sua crescita professionale e personale non faccia minimamente parte dei compiti di un manager. Che probabilmente pensa che si tratti di una questione che esula dal business e dalla vita aziendale e spetti ad altre figure (genitori, parenti, professori…)
Quando ricopriamo posizioni manageriali e dobbiamo gestire un team di individui, siamo sempre molto impegnati a impartire direttive, assegnare obiettivi, controllare il loro raggiungimento. L’interesse per la persona in quanto soggetto, e per il suo potenziale di sviluppo è estremamente ridotto. E il più delle volte è strumentale al raggiungimento degli obiettivi che ci sono stati assegnati. Le interazioni avvengono soltanto durante le riunioni di budget e per monitorare le loro performance, con relative indicazioni correttive (leggi “cazziatone se i risultati non sono positivi).
In questo modo riusciamo ad ottenere nella migliore delle ipotesi l’esecuzione dei nostri ordini, delle nostre istruzioni. Ma non generiamo motivazione, né crescita. E questo paradossalmente incide talvolta proprio su quelle performance che siamo tanto preoccupati di ottenere.
Sono in molti a pensare magari in buona fede ma erroneamente che fare coaching significhi guidare una persona dandole delle direttive e indicandole cosa sia giusto e cosa sia sbagliato secondo il nostro sistema di valori. Questa pratica si chiama “mentoring”.
Supportare un collaboratore con il Coaching non significa conoscere a priori i suoi obiettivi, ma al contrario aiutarlo a riconoscerli ponendo le domande giuste, e orientando il suo modo di ragionare, non le sue conclusioni.
E allo stesso modo la creazione di un piano di sviluppo per l’individuo non deve suonare come una imposizione, ma facendoci arrivare la persona con il suo ragionamento, in modo che se ne assuma la piena responsabilità.
Dulcis in fundo, il feedback che restituiamo alla persona deve aiutarla a riconoscere i suoi meriti e le sue mancanze, a formulare autonomamente ipotesi di miglioramento per il compito specifico.
Insomma, se vogliamo fare coaching dobbiamo dimenticare in quel momento di essere “capi” e indossare per l’occasione il cappello del “Coach”.
Non si diventa Coach da un giorno all’altro, si apprendono metodologie e si applica passo dopo passo. Ma talvolta, oltre ad ottenere risultati migliori, si può incidere in modo determinante sull’intera vita di una persona. E questo tipo di gratificazione non ha prezzo.
Chiudo citando l’affermazione paradossale di un manager di fronte alla prospettiva di fare coaching ai suoi collaboratori: “Ma se li faccio crescere poi se ne vanno…”.
Vi risparmio il mio commento…
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